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Walter Palmieri
Gli tsunami prima dello tsunami: maremoti nella storia d’Italia
3 Dicembre 2007
Clima e risorse
Lo tsunami è una campana che ha suonato anche per noi. Non solo perché siamo tutti abitanti del pianeta, ma anche perché il nostro cortile non è proprio sicurissimo. Da I frutti di Demetra, n.5, 2005

La recente catastrofe verificatasi nel sud-est asiatico – probabilmente grazie anche al fatto che tra le oltre 280.000 vittime si contano pure dei turisti occidentali – ha catalizzato l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale. Anche in Italia, com’è noto, l’evento ha avuto una vasta eco, sino a divenire un vero e proprio evento mass-mediatico. Colpisce però il fatto che, al più conosciuto e popolare lemma “maremoto”, sia stato spesso preferito un termine – lo tsunami – che fino a pochi giorni prima era pressoché sconosciuto al grande pubblico e utilizzato in prevalenza in ambito scientifico. Quasi a voler marcare l’esoticità, la distanza geografica dell’evento, lo “tsunami” è divenuto così il modo con cui molti italiani hanno identificato, non tanto il fenomeno dei maremoti in generale, ma quel particolare evento, quella specifica calamità.

Nonostante questa sorta di desemantizzazione, nonostante l’inconscio bisogno collettivo di rimuovere e allontanare, anche terminologicamente, la presenza del rischio, non sono in verità mancate occasioni, sulla stampa e altrove, in cui è stato posto il problema della possibilità che fenomeni del genere possano verificarsi anche nella nostra Penisola. Nella maggior parte dei casi però, la casistica proposta si è limitata a segnalare eventi relativamente recenti, e in primo luogo l’onda anomala, provocata da un ingente distacco di roccia lavica, che investì Stromboli nel dicembre del 2002.

In realtà il fenomeno dei maremoti è tutt’altro che rarissimo nel nostro Paese. L’istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (www.ingv.it/italiantsunamis/tsun.html) ha catalogato ben 67 eventi di questo tipo, e ulteriori informazioni sono reperibili anche nel Catalogo dei forti terremoti in Italia dal 461 a.C. al 1980 (E. Boschi et al, Roma, Istituto Nazionale di Geofisica, 1997). Si tratta ovviamente di dati che, soprattutto quando riferiti ad epoche molto remote, presentano differenti gradi di attendibilità, ma che tuttavia forniscono un quadro estremamente significativo dell’elevato livello di rischio esistente in Italia.

Va innanzitutto ricordato che, benché i terremoti sottomarini o in prossimità delle coste, siano stati le cause principali dei maremoti, l’Italia, per la sua conformazione geofisica, è particolarmente vulnerabile anche a onde anomale causate dall’attività vulcanica. E’ di questo tipo, ad esempio, il primo caso di maremoto accertato sulle coste italiane: quello che colpì il golfo di Napoli in seguito alla catastrofica eruzione del Vesuvio nel 79 a.c.; lo stesso Vesuvio fu poi all’origine di ulteriori onde anomale nel 1631, nel 1698, nel 1714, nel 1813 e nel 1906. Anche in Sicilia si verificarono degli tsunami causati direttamente o indirettamente da eruzioni vulcaniche. I più numerosi si registrarono nel complesso vulcanico delle isole Eolie: oltre al già ricordato evento del 2002, vi furono a Stromboli, solo nel XX secolo, ben 5 maremoti, il più grave dei quali uccise, nel settembre del 1930, due pescatori.

Anche le frane hanno poi avuto, in qualche caso, un ruolo nei movimenti anomali dei livelli marini: nel giugno del 1978, ad esempio si registrarono forti oscillazioni marine nell’Adriatico centrale che coinvolsero sia le coste italiane (a Bisceglie il mare penetrò sulla terraferma per circa 200 metri) che quelle croate (nell’isola di Korciula le onde, alte 8 metri, inondarono le case sulla costa); l’ipotesi più accreditata è che quel fenomeno fosse stato generato da una frana sottomarina. Un ulteriore caso si verificò l’anno dopo: a causa di alcuni lavori nel porto di Nizza, franarono in mare circa 10 milioni di metri cubi di terra; l’onda che ne scaturì inondò alcune località della costa azzurra e uccise una persona. Nelle isole Eolie, infine, nell’aprile del 1988, un’onda anomala fu generata da una frana di circa 200.000 metri cubi scesa dal fianco del vulcano La Fossa nell’isola di Vulcano.

Dai pochi dati sopra riportati è evidente che l’area italiana che storicamente ha conosciuto con più frequenza fenomeni di maremoti è il Mezzogiorno. Sebbene eventi del genere si siano registrati anche in altre aree costiere – 9 sulla costa ligure/costa azzurra, 3 sulla costa livornese e altrettanti sulle coste dell’adriatico centro-settentrionale – è sulle sponde meridionali che si presenta, infatti, il maggiore livello di rischio: circa il 75% di tutti gli tsunami italiani, si sono abbattuti sui litorali della Puglia, della Campania e, soprattutto, della Calabria e della Sicilia.

Ma non è solo la frequenza degli eventi a destare forti preoccupazioni. Se infatti a tutt’oggi risulta impossibile prevedere il momento e il luogo preciso in cui si verificherà un terremoto, ciò che invece è senza dubbio possibile prevedere, è che in aree fortemente sismiche, e quindi soggette anche al pericolo maremoti, l’assenza di politiche di mitigazione del rischio rischia di trasformare l’evento naturale in una catastrofe.

Ovviamente, rispetto al passato, vi è stata una enorme crescita, non solo delle conoscenze specialistiche (geologiche, ingegneristiche, etc.), ma anche della strumentazione tecnica per affrontare eventi di questo tipo; tuttavia non sempre questi sviluppi si sono poi tradotti in politiche di prevenzione: con l’eccezione di Stromboli, dove il moto ondoso viene oggi costantemente monitorato, il sistema di rilevazione e di allarme per i maremoti è in Italia scarsamente paragonabile a procedure d’allerta quali, ad esempio, il PTWS (Pacific Tsunami Warning System) che prevede persino l’uso dei satelliti per acquisire i dati mareografici in tempo reale.

Ma, cosa ancor più grave, se si opera un confronto con i secoli precedenti, non si può non rilevare un altro dato di estrema importanza: gran parte delle coste italiane – e quelle meridionali in particolare – sono state per lunghi secoli luoghi paludosi e malarici e quindi scarsamente popolate. I “marimoti”, come talvolta venivano definiti nei documenti e nella pubblicistica dell’epoca, pur causando morti e distruzioni, erano in ogni caso destinati ad abbattersi prevalentemente in aree prive di rilevanti insediamenti umani. A partire dal XX secolo invece – e con una fortissima accelerazione nel boom economico del secondo dopoguerra – le coste meridionali sono state oggetto, com’è noto, di una antropizzazione senza precedenti: una trasformazione del territorio, attuata spesso senza alcuna pianificazione, sulla scorta di una crescente domanda di turismo balneare. Diventa poi quasi paradossale il pensare che, oltre all’antropizzazione selvaggia delle coste – peraltro incrementata dai vari condoni edilizi che si sono succeduti negl’ultimi anni – si minacciano persino peculiari forme di antropizzazione marina: il riferimento è ovviamente al ponte che dovrebbe sorgere in un’area, lo stretto di Messina, che ha conosciuto – lo vedremo tra breve – le forme più violente e distruttive di maremoto che si siano mai verificate in Italia.

Quelle che di seguito si riportano, sono alcune testimonianze sulle più catastrofiche inondazioni marine che si sono avute sulle coste italiane.

Il primo brano è un breve resoconto tratto da un testo coevo (Sincera ed esatta relazione dell'orribile terremoto seguito nell'isola di Sicilia il dì 11 di gennaio 1693, Roma, per Gio. Francesco Buagni, 1693) sul maremoto successivo al sisma del 1693, che colpì violentemente la Sicilia orientale causando circa 60 mila morti e la distruzione di numerosissime città e villaggi:

Il giorno de’ 9 di Gennaio prossimo passato nell’Isola di Sicilia si sentì improvvisamente un terremoto terribile, verso le quattro ore di notte, che replicando il dì 11 dopo mezo giorno in brevissimo tempo subissò tutta la Città di Catania, e nel medesimo tempo il Mare si ritirò alquanto, lasciando in secco le navi, che erano in quella spiaggia, e poi ingrossato ritornò come un torrente furioso, e rapido, e così durò circa un quarto d’ora, e que’ legni ebbero gran pena a salvarsi. Dopo seguì una fiera borrasca con grandissima pioggia, e nuvoloni di polvere, che si stesero per più di otto miglia per quelle spiagge, e nello stesso tempo il terremoto fu sentito in Augusta, e in Siracusa con la total distrutione di ambe le dette Città, con essersi ivi salvata pochissima gente.

Messina anch’essa nell’istesso giorno ha provati gli eccidj del terremoto, e ben grandi, essendovi cadute molte case, […] e anche ivi’l mare si ritirò a segno tale, che mancò l’acqua, che circonda la Cittadella, e dopo ritornò con impeto grande.

La seconda testimonianza è invece relativa al disastroso terremoto – e al successivo maremoto – del febbraio 1783 che distrusse completamente moltissime zone della Calabria meridionale e della Sicilia orientale. I morti in quell’occasione raggiunsero circa il 7% della popolazione dell’area e si verificarono enormi sconvolgimenti del territorio (cfr. P. Tino, Terremoto e mutamenti ambientali nella Calabria di fine Settecento, in “I frutti di Demetra”, n. 3, 2004). Il brano che segue è tratto dal volume di Andrea De Leone (Giornale e notizie de' tremuoti accaduti l'anno 1783 nella provincia di Catanzaro, Napoli, Stamperia de' f.lli Raimondi, 1783):

Memorando e spaventevole fu lo scempio di questa rinomata città [Scilla]. […] La quarta parte di questa città cadde in un tratto alle scosse del dì 5 di febbraro, ed il restante fu fracassato in modo da non potersi abitare. […]

In tanta sciagura, e confusione gli abitanti del quartiere di San Giorgio vedendo vicina la notte si ricoverarono negli orti; mentre tutti gli altri volarono alle adjacenti marine, dove, seguendo l’esempio del Conte di Sinopoli, trasportarono il più prezioso, che aveano, e si allogarono chi sotto le tende, e chi sulle barche. Il Conte si pose con 49 suoi cortigiani su di una comoda filuca. Mentre questi sventurati cercarono scampar la morte, che minacciava la terra, ne preparò loro un’altra più cruda il mare. Inoltratasi dunque la notte verso le ore 8 d’Italia, e nel punto, che l’aria, e l’acqua stavan chete e tranquille, se non che placidamente pioviginava, s’intese un grandissimo rumore: si vide in seguito un pezzo di terra dell’estensione di un miglio e mezzo quadrato distaccarsi dalla montagna detta Campallà […].

Non si era quella misera gente riavuta ancora dello spavento provenutole da sì gran fracasso, che soggiacque ad un totale sterminio: mezzo minuto dopo la narrata rivoluzione si alzarono dalla parte di mezzogiorno e libeccio due sterminati cavalloni di mare dietro ad un orrendo muggito, che ad un tratto lanciati sul lido misero sossopra le barche, e le tende, ed ingojarono 1431 di que’ meschini rifuggiti alle arene del mare. Parte di questi furono fiaccati per le finestre e per le porte ne’ primi piani delle case situate alla marina, e gittati in fronte alle mura con tutte le barche: e parte trascinati dall’onde, che si ritiravano nel fondo del mare. Questo sconvolgimento durò circa due minuti, e subito ritornarono le acque nelle primiera calma. Fra gli annegati vi fu il Conte con tutti i suoi cortigiani […].

Tutti gli abitatori del quartiere di San Giorgio, che si erano ritirati ne’ giardini, non furono lesi dell’inondazione; ma quelli dell’Acquagrande, che si erano allogati nella Chianella, e nella marina dell’Oliveto, soffrirono qualche danno: siccome quelli delle Gornelle e Livorno furono, come ho avvertito, quasi tutti sommersi: alcuno di quella gente infelice si salvava e nuoto, e nel bere un po’ di vino che chiedeva per conforto, rendeva l’anima al Creatore. […]

Le acque lungo la marina grande si alzarono 24 palmi [6,2 metri] dalla parte di mezzogiorno, e 32 [8,3 metri] da quella di tramontana, e nel vallone di Livorno situato in mezzo quella marina [s’inoltrarono] a palmi 647 [circa 170 metri] […]. Furono quivi distrutte 22 case, 12 casini, 3 magazzini, il fondaco de’ manganelli di seta, e la chiesa dello Spirito Santo; ed una sola casa rimasta intatta salvò 140 persone. Per lo spazio di due mesi il mare andò gittando ai seguenti lidi i corpi degli annegati. A Davazzina distante 3 miglia da Scilla; a Bagnara distante sei; a Palmi 12; alle Pietrenegre 15 miglia: a Gioja diciotto; a Nicotera trenta; a Paola cento; al Faro quattro; a Laci 50; ed a Catania distante 60 miglia.

La popolazione di questa luttuosa città era di 1513 individui; de’ quali ne perirono 1447, cioè 330 uomini, 594 donne, 513 ragazzi: né sotto le rovine rimasero più che 56, essendo stato tutto il resto ingoiato del mare. […]

La popolazione ascendeva [a Nicotera] a 4009 cittadini, de’ quali 20 soli rimasero estinti dal flagello [..]. Anche il mare diede segni grandi della massima alterazione, in cui fu messo del tremuoto. Si ritirò, divenne gonfio, e ad un tratto, slanciandosi nel lido, mise sotto sopra le barche da pesca quivi allogate. […]

Il fenomeno significante, avvenuto in Reggio, è quello dello mutazione succeduta nella strada, detta de’ Giunchi. […] Lungo la spiaggia conterminale a questo luogo vi erano molte officine, stabilite per trarre da’ bachi la seta. Il mare dianzi baciava queste sponde; e ne’ tempi più tempestosi gli ordigni, ivi giacenti, rimaneansi a coverto dagl’insulti delle onde.

Ne’ fatali momenti del tremoto si mutò talmente l’aspetto antico delle cose, che il mare traboccò le sponde, e le inondò a segno che dovettero di là togliersi gli ordigni da seta, e trasportarsi altrove: né già si creda che quest’alterazione fosse durata né soli momenti della rivoluzione; ma per l’opposito essa è tutt’ora durevole, e il mare sopravvanza quasi per l’altezza di due palmi [circa 1/2 metro] l’antico livello della spiaggia. […]

Se somma considerazione meritano i gravissimi disastri, che si produssero non solo dall’aeromoto, ma anche del tremoto del dì cinque di febbrajo, non è men degno di attenzione il marimoto, che nello stesso fatale momento si destò nel mare che bagna le sponde di Messina, di Reggio, del Cenidio, e del Faro, e che si unì col tremoto, e coll’aeremoto, cagionando collegati insieme, effetti diversi, e cospirando tutti a formare un impeto solo. Nella fervida, e tumultuosa Carriddi, nelle rapide opposte correnti, e in tutto il volume delle acque, le quali inondano tutto quel vasto distretto, si concepì un così valido, e formidabile scomponimento, che, come se una forze potentissima ne avesse percosso il centro, e scisso il seno per metà, il mare pria orribilmente avallandosi nel mezzo, e indi in rapidissimi voraci spire ampiamente nabissando, respinse per gli opposti lati l’onda inarcata; e con tale indicibile violenza ne sbalzò i flutti ripercossi, che trascinandoli a invadere, e a superare tutta l’estensione del tranquillo letto del porto, li sforzò ad ergersi incontro alla valida difesa della panchetta, e a traboccar tanto al di là di essa, che tutto lo spazio, interposto tra questa, e le basi de’ grandi edifici del teatro marittimo, ne rimase altamente ove più, ove meno inondato, e ingombro di marino limo, e di arena.[…]

Da Messina a Torre di Faro vi ha la distanza di undici miglia, o poco più; e da Torre di Faro al Cenidio vi ha quella di quasi un miglio e mezzo, quanta è la latitudine dell’interposto mare tra’ due avversi promontorj del Peloro, e dal Cenidio, da cui sino a Scilla vi sono intorno a sei miglia.

In tutte le sponde conterminali al mare, che occupa i luoghi posti nelle distanze accennate, ove più, ove meno, si risentirono gli effetti di un tale marimoto.[…]

In Torre di Faro vi furono disordini tali, che decisivamente indicarono d’essere stato tal luogo compreso nelle circonferenza di quel teatro, in cui il marimoto rappresentò le tragiche sue scene. Di fatto nella stessa notte funesta, nella quale tante orribili sventure posero a soqquadro la vita, e le fortune degli Scillitani, quivi l’onda, escrescendo, irruentemente invase le sponde: rapì seco alcuni meschini legni, che se le pararono davanti: assorbì 26 miserabili vittime, che si stavano ricoverate sopra picciole barchette pescherecce; e inoltrandosi ove per 200 [50 metri circa], ove per 400, ed ove per 600 passi, rovesciò gli argini arenosi, inondò i vigneti, svelse le piantagioni, e traboccò nel pantano, nelle vigne, e ne’ terreni, d’onde portò via quanto incontrò; e dove depose, o per compenso, o per nuovo ingombramento, moltissimo limo, e molta copia di pesci […]

L’ultimo evento preso in considerazione è il catastrofico maremoto successivo al fortissimo sisma del 28 dicembre 1908 con epicentro in mare, nello stretto di Messina. Le vittime – causate sia dal sisma che delle onde distruttive – furono stimate in circa 120.000 unità (solo a Messina vi furono 80.000 morti e 15.000 a Reggio Calabria). Lo scritto che segue (tratto da Contributo allo studio del terremoto calabro-messinese del 28 dicembre 1908, in “Atti del R. Istituto d'Incoraggiamento di Napoli”, serie VI, vol. VII, 1909) è di uno dei padri della sismologia italiana: quel Giuseppe Mercalli a cui si deve la creazione dell’omonima scala di intensità sismica che, pensata inizialmente in 10 gradi, fu successivamente integrata di altri 2 gradi proprio per ricomprendere quest’evento. Va però precisato che il brano in questione si limita a descrivere gli effetti sulla costa calabrese, e non comprende invece le morti e le distruzioni che il maremoto causò alle coste sicule e in particolare a Messina e a Riposto, S. Alessio, Briga e Paradiso che furono quasi completamente distrutte da onde alte oltre 10 metri:

Io ho osservato gli effetti di questo fenomeno [il maremoto] specialmente sulla costa calabrese. Premetterò che l’azione disastrosa dell’onda di mare, che distrusse strade, piante, case, ingoiò animali e uomini, si estese a nord di Reggio fino a Villa S.Giovanni, a sud fino e Lazzàro.

Infatti, tra Villa S.Giovanni e Pezzo il mare entrò, per esempio, nelle filande dei signori Erba asportando balle di sete e uccidendo due persone. Invece, subito a nord delle Punta del Pezzo, il mare non fece più danni. A Bagnara non si accorsero neppure del maremoto, forse perché la costa è scoscesa. Invece a Nicotera-Marina, dove la spiaggia èmolto estesa, il mare prima si ritirò per gran tratto lasciando a secco la carcassa d’una nave arenata e parzialmente sommersa; e, dopo pochi minuti, un’ondata invase la spiaggia arrivando fino alle case. Verso sud, mentre il maremoto fu disastroso a Pellaro e a Lazzàro, dove l’acqua s’innalzò fino a 10 metri d’altezza, appena passato Capo dell’Armi, diminuì rapidamente d’importanza. A Melito e a Bovamarina fu mediocre (a Bova, alcuni giorni dopo il terremoto, il mare gettò sulla spiaggia una bambina morta): alla marina di Palizzi appena sensibile. A Brancaleone, il mare primo si ritirò e poi invase la spiaggia.

A Reggio mi dissero che le onde furono tre: un casellano, che era di guardia, attendendo il treno alla Pescheria, dice che la prima ondata arrivò alla ferrovia mentre durava ancora la scossa: la seconda ondata, arrivò 5 o 6 minuti dopo, la terza, più forte di tutte, dopo altri 5 o 6 minuti (anche a Gallico inferiore, secondo il sig. Stilo, l’ondata più forte avvenne circa 10 minuti dopo. Quivi l’onda del mare si inoltrò sulla terra per circa 300 metri distruggendo case e rigogliosi vigneti. Il materiale di alcune case coloniche venne sparso a grande distanza. I massi di una diga del torrente Bozzurro furono portati almeno 100 metri lontano). Due barche vennero portate sulla linea; un’altra più al di là. Alla stazione del ferry-boat le carrozze della ferrovia vennero tutte rovesciate e qualcuna capovolta.

Anche a S.Gregorio (tra le Sbarre e Pellaro) una barca, di 4 metri e 1/2 di lunghezza, venne portata dall’onda del mare al di là del terrapieno della ferrovia e deposta in mezzo a un aranceto tutto distrutto. Presso Pellaro, un ponte della ferrovia venne trasportato lontano dal maremoto, come dirò meglio in seguito.

In molti altri luoghi, ho trovato piante sepolte parzialmente sotto lo sabbia del mare, e tutte seccate e rovesciate verso terra; […].

Un marinaio di Pellaro, che si trovava in barca al momento del terremoto, dice che il mare prima si ritirò e lo trascinò molto lontano dalla spiaggia, e così si salvò restando al largo. Quanto all’ora del maremoto, non ebbi informazioni concordi, ma pare che sia cominciato a Reggio e a Messina quasi immediatamente dopo la scossa, a Pellaro e a Lazzàro parecchi minuti dopo (7-8 min., secondo alcuni; fin 15 min., secondo altri); a Bova circa 30 minuti dopo.

Questo ritardo dell’arrivo dell’onda di maremoto con l’allontanarsi da Reggio e da Messina dimostra un’altra volta che l’epicentro del fenomeno è da porsi in mare tra queste due città. […]

Gli effetti meccanici del maremoto si sovrapposero così intimamente a quelli del terremoto e del franamento di spiaggia, che è difficile tenerli distinti, e perciò li descriveremo insieme nelle pagine seguenti.

Sprofondamenti di spiaggia. - A Messina la banchina del porto, in diversi punti. sprofondò in mare: per esempio, presso l’imbarco del ferry-boat si vedevano, ancora nell’aprile, dei vagoni per 3/4 immersi nell’acqua. La strada rotabile parallela alla spiaggia restò tutta sconnessa e in parte sommersa […].

Presso le frazione di Occhio (presso Pellaro), il mare distrusse agrumi ed ortaggi e ricoprì il terreno di ciottoli e molte case coloniche di cattiva costruzione (ciottoli e fango) crollarono prima per il terremoto, poi furono rase letteralmente al suolo dall’ondata di maremoto. Sparsi dappertutto senz’ordine si vedevano pezzi di mobili, insegne di botteghe, lettiere, brandelli d’abiti, ecc. Si sa che qualcuno si salvò, arrampicandosi sugli alberi.

Davanti alla chiesa della Consolazione distrutta, due fontane furono demolite dal maremoto e restarono prive d’acqua.

Muri spezzati in grandi blocchi rimasero rovesciati a terra e la spiaggia scomparve per una settantina di metri di larghezza. Altri muri di cinta (vicino ad Occhio) vennero spostati parallelamente alla spiaggia.

Però, pure vicino alla frazione di Occhio, alcune case basse, ben fatte e di recente costruzione, resistettero in mezzo a tanta rovina. Anche il terrapieno delle ferrovia rimase in posto, sebbene vi sia passata sopra l’onda del maremoto, la cui violenza si può argomentare dal seguente fatto. Poco a sud dello frazione di Pellaro, presso il casello n. 461, un ponte in ferro della ferrovia, diretto NE-SW, e di 40 metri di lunghezza per 4 di larghezza, venne gettato intero dai pilastri, girando di 60° circa intorno alla sua estremità SW e trascinando con se le rotaie, senza spezzarle dalla stessa parte di SW, rompendole invece dalla parte opposta. [....]

Tra Pellaro e Capo d’Armi le rovine sono molto saltuarie, perché dovute più al maremoto che al terremoto.

Presso il centro di Lazzàro (frazione di Motta S.Giovanni) la strada provinciale venne, per un buon tratto, demolita dal maremoto, il quale portò via quasi completamente la chiesa parrocchiale di S.Maria delle Grazie (dopo il maremoto del 28 dicembre, di questa chiesa restò in posto solo parte dell’Altare maggiore, il quale venne poi portato via da un’altra mareggiata avvenuta 3 giorni dopo) e distrusse le case di contadini e i piccoli appezzati di terreno coltivato, che stavano tra la strada e il mare: molti pezzi di muro di queste case ore si vedono emergere poco dall’acqua. Qui 27 persone perirono annegate, di cui solo 7 od 8 vennero gettate entro terra e i cadaveri si poterono portare al cimitero. Molti si salvarono, perché tra il terremoto e il maremoto ebbero tempo di fuggire verso il terrapieno della ferrovia, che non venne superato dal mare. Qui trovai tracce dell’onda di maremoto fino a 10 metri d’altezza sul livello del mare.

Nella parte di Lazzàro non distrutta dal maremoto ci furono parecchie case almeno parzialmente crollate con vittime umane; ma la maggior parte vennero solo più o meno gravemente lesionate. Tutti poi i piani inferiori delle case furono invasi dalla acque del mare, che percorsero il Corso Vittorio Emanuele, trascinando lontano persone e suppellettili.

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