Il manifesto, 20 settembre 2016 (p.d.)
È a loro, a quei magistrati, alla loro coscienza, che va riferito ora il senso profondo di quella rappresentazione, che è, o dovrebbe essere, il rimorso. Come è possibile non provare rimorso per una sentenza che antepone al rispetto della pari dignità e al diritto alla vita di tutti i lavoratori l’ego tronfio di un padrone e di una gestione aziendale? Di un sistema che include tra i materiali e i fattori del processo produttivo anche la pretesa di essere esentati da una critica che porta in piazza le gravissime conseguenze di quelle discriminazioni?
Si è lasciato volutamente per strada quel briciolo di umanità che dovrebbe impedire di invertire le parti tra una serie di suicidi veri, di lavoratori ridotti alla disperazione, e un suicidio finto, e solo rappresentato con un’effige di stracci e cartone. Di quei suicidi veri si è scritto in sentenza che è impossibile ricondurli alla discriminazione e alla conseguente miseria che li hanno generati. Mentre quel suicidio finto e solo rappresentato è stato invece considerato un irrimediabile intoppo alla produzione o alla possibilità di dargli un adeguato sbocco sul mercato. Perdere quel briciolo di umanità con una inversione delle parti come questa, e non senza un gravissimo stravolgimento dello spirito e della lettera della legge, dà la misura di quanto siamo ormai precipitati, o stiamo precipitando, in un clima di barbarie.
Una barbarie che non è più confinata solo entro i muri della fabbrica, un luogo in cui ai lavoratori non sono mai stati garantiti giustizia e benessere, perché diritto e amministrazione della giustizia se ne sono sempre tenuti lontani per non disturbare l’«ordinario andamento» dei processi produttivi. Ma qui c’è qualcosa di più: c’è una barbarie che si è mossa alla difesa del processo produttivo anche all’esterno della fabbrica, circondandola con un «cordone sanitario», per impedire che anche solo l’eco delle malefatte che si perpetrano al suo interno possa raggiungere le orecchie dei non addetti ai lavori. Con questa sentenza i giudici che l’hanno emessa ci stanno dicendo che la discriminazione all’interno della fabbrica è una componente «naturale» dell’ordine produttivo; che non va denunciata neanche quando porta a conseguenze gravissime come il suicidio; che il suicidio di chi è stato discriminato non è che una «opzione» individuale; e che il richiamo alla coscienza dei responsabili di quelle discriminazioni e di quei suicidi – e di chi dovrebbe farsi carico di quell’urlo di disperazione – è un atto indebito. È un maldestro tentativo di far ricorso a quel senso di umanità che dovrebbe albergare in ciascuno di noi e che invece va spento una volta per sempre, perché il processo produttivo e le prospettive di mercato non subiscano intoppi.
La cattiveria umana, e non il caso, ha fatto sì che proprio in questi giorni venisse messo in chiaro dove portano sentenze secondo cui la vita di un operaio o di una operaia non vale niente, mentre le esigenze della produzione sono tutto. Al grido di «Spianatelo come con un ferro da stiro» un lavoratore che partecipava a un picchetto è stato ucciso da un camion lanciato contro di lui su incitazione di un manager. Aveva cinque figli ed era egiziano. Due ragioni in più per sostenere che non era niente. Infatti sembra che la Procura di Piacenza abbia declassato quel l’omicidio a «incidente stradale».