Per comprendere meglio ciò che accade a Mirafiori e a Pomigliano è necessario affondare lo sguardo nelle tendenze storiche che muovono il capitalismo del nostro tempo. E bisogna scomodare Marx. Egli aveva colto come “legge fondamentale dell'accumulazione capitalistica” una tendenza già evidente ai suoi tempi e oggi conclamata : «Dato che la massa di lavoro vivo impiegato diminuisce costantemente in rapporto alla massa di lavoro oggettivato da essa messo in movimento (cioé ai mezzi di produzione...) anche la parte di questo lavoro vivo che non è pagato e si oggettiva nel plusvalore, dovrà essere in proporzione costantemente decrescente rispetto al valore del capitale complessivo impiegato”. Nel corso del suo sviluppo, dunque, il capitalismo riduce costantemente la quota di lavoro per unità di prodotto, cercando di sfuggire alla caduta tendenziale del saggio di profitto e di sostenere la competizione. Quella competizione che oggi esso stesso si fa delocalizzando parte delle sue imprese nei paesi a bassi salari.
Ma il capitale che espelle lavoro cerca di sfruttare più intensivamente quello che impiega, perché più ridotta diventa nel frattempo la quota da cui può estrarre plusvalore. André Gorz ha riassunto lapidariamente questa attuale contraddizione del capitale in cui i lavoratori vengono stritolati: «più la quantità di lavoro per una produzione data diminuisce, più il valore prodotto per lavoratore – la sua produttività – deve aumentare affinché la massa del profitto realizzabile non diminuisca. Si ha dunque questo apparente paradosso per cui più la produttività aumenta, più è necessario che aumenti ancora per evitare che il volume del profitto diminuisca. La corsa alla produttività tende così ad accelerarsi, gli impiegati effettivi a essere ridotti, la pressione sul personale a inasprirsi, il livello e la massa dei salariati a diminuire». E in questa morsa oggi, letteralmente, si soffoca. Chi ha la pazienza di leggersi la grande inchiesta della Fiom del 2008, condotta su un questionario cui hanno risposto 100 mila lavoratrici e lavoratori, può farsene un'idea.
Siamo dunque giunti a una fase storica nella quale o noi costringiamo il capitalismo a cambiare il suo modello di accumulazione, o esso trascinerà l'intera società industriale nella barbarie. Non è un'espressione di maniera. Non è uno slogan. Chi oggi, anche in buona fede, difende il nuovo contratto imposto da Marchionne, crede che tale cedimento sia accettabile come un compromesso temporaneo, dovuto alla drammatica crisi in atto e ai vincoli della competizione mondiale. E' un gravissimo errore. Questa idea fa parte di una campagna pubblicitaria che punta a far arretrare ulteriormente i rapporti di classe con un argomento puramente propagandistico: oggi occorre tirare la cinghia per poter ritornare allo splendore di prima. Ma prima il cielo era davvero così splendido? Che questa sia una menzogna è possibile illustrarlo , non per congettura, ma con una semplice analisi storica, quindi con fatti scientificamente verificabili.
Prima della crisi, vale a dire nel 2000, nei Paesi dell'OCSE si contavano 35 milioni di lavoratori disoccupati. Come ha ripetutamente illustrato Luciano Gallino i nuovi posti di lavoro che si sono creati in Europa sono stati in gran parte a tempo determinato e precari. Negli USA, non solo i nuovi posti di lavoro – per lo più nei servizi e con ampio utilizzo part- time di donne – sono stati ufficialmente gonfiati dal sistema di rilevazione statistica: anche una settimana di lavoro poteva fare un impiego annuale nelle stime generali sull'occupazione. Ma in quegli anni sparivano dalle statistiche oltre 2 milioni di persone “occupate” nelle carceri di Stato ( e in quelle private). E qualche hanno fa abbiamo scoperto che tra il 1973 e il 2005 il reddito dei lavoratori «è lievemente diminuito». Ma sul Paese più ricco del mondo, epicentro della crisi mondiale, voglio aggiungere due dati che persuaderanno il lettore di ciò che voglio dire. Nel 1995 il numero dei bambini che risultavano al di sotto della linea ufficiale di povertà assommavano al 26, 3% , quasi alla pari con la Russia di Yeltsin (26,6%), allora in vendita ai predoni di tutto il mondo e in mano alle mafie locali. In tale statistica – elaborata da un'inchiesta comparativa su 25 paesi - figuravano al 3° e 4° posto il Regno Unito (21,3%) e l'Italia (21,2), vale a dire i paesi che con maggior zelo hanno applicato il verbo e i dettami del pensiero neoliberistico.E sempre per restare negli USA , ricordo che già nel 1990 , la National Association of State Board of Education aveva dichiarato senza mezzi termini: «Mai prima una generazione di teenagers americani è stata meno sana, meno curata, meno preparata per la vita di quanto lo fossero i loro genitori alla stessa età».
Potremmo continuare con altri dati e analisi. Ma ciò che qui è sufficiente ricordare è che gia prima della crisi il capitale aveva saccheggiato il lavoro salariato e i redditi dei ceti medi senza risolvere il drammatico problema della disoccupazione e diffondendo la precarietà. In Italia, dopo decenni di asservimento del ceto politico, di centro-sinistra e di centro-destra alle ragioni dell'impresa, è andata anche peggio. Nell' utilizzare il termine asservimento, non mi riferisco solo alle vendite del patrimonio pubblico, alla liberalizzazione di tanti servizi municipali. In questo caso penso , specificamente, alla deliberata volontà di scaricare sul lavoro i rischi dell'impresa, rendendo il lavoratore flessibilmente subordinato alle sue necessità. Dalla Legge Treu del 1997, alla Legge 30 del 2003 , il capitalismo italiano ha potuto godere di condizioni di generosa disponibilità nell'uso della forza lavoro. Con quale esito? Mi è sufficiente sintetizzare i risultati di tale geniale strategia con un bilancio recente (2008) del Governatore della Banca d'Italia: «Negli ultimi vent'anni la nostra è stata una storia di produttività stagnante, bassi investimenti, bassi salari, bassi consumi, tasse alte». Ma aggiungo: alte tasse relativamente più gravose per gli operai che – secondo un'indagine IRES – tra il 2002 e il 2008 hanno lasciato al fisco, mediamente, 1.182 euro delle loro misere paghe. E per finire, sempre dati Banca d'Italia 2008, la metà più povera della popolazione possedeva il 10% della ricchezza nazionale, mentre il 10 di quella più ricca deteneva il 44%.
E allora torniamo alla Fiat, agli operai, ai partiti politici. Quanto abbiamo ricordato significa innanzi tutto una cosa: la politica moderata del centro-sinistra, che ha attuato – non diversamente dal centro-destra - le ricette neoliberiste, non è minimamente servita a difendere i ceti operai, anzi li ulteriormente impoveriti. Non ha ottenuto maggiori investimenti da parte delle imprese, ha contribuito a fare arretrare il paese nel suo complesso. Ma significa anche che continuare su questa linea fallimentare, con l'idea di “uscire dalla crisi” secondo la ricetta moderata, costituirà una sciagura di portata incalcolabile per le masse popolari e per tutta la società industriale italiana. Il tracollo economico in cui siamo immersi non è la solita crisi ciclica. Altrimenti non avremmo avuto così tanta disoccupazione e povertà prima che essa esplodesse. Nelle fasi alte del ciclo - come sappiamo dalla lunga storia storia dei tracolli capitalistici - crescono ricchezza e occupazione. Noi abbiamo avuto soltanto la bolla finanziaria, cresciuta sul debito. La “crisi” di questi anni è il risultato di un gigantesco saccheggio di reddito che il capitale ha compiuto in una fase storica di debolezza del suo avversario di classe e del movimento operaio organizzato. Perciò dal presente imballo sistemico non si esce se non attraverso una altrettanto gigantesca opera di redistribuzione della ricchezza.
Un compito di ampia portata ne siamo consapevoli. Ma bisognerebbe innanzitutto incominciare a dichiararlo. Poi predisporre le forze. Perché oggi, per essere all'altezza delle sfide, bisogna mettere in piedi un fronte di conflitto sociale di non comune ampiezza. Il comportamento “moderato” di tanti dirigenti del PD, sostanzialmente favorevoli ad accettare la strategia di Marchionne è a mio avviso un fatto drammatico, che impone una presa d'atto di tutte le persone che militano oggi nella sinistra.
Il Pd : «un amalgama malriuscito» è stato definito da chi si intende della materia, avendo ridotto la politica all'arte di “amalgamare” capi partito. Credo che sia stato qualcosa di ben più grave. La scelta veltroniana del bipartitismo perfetto rivela una lettura di retroguardia delle tendenze politiche mondiali. Laddove esso è stato storicamente dominante ( USA e UK) oggi appare come una barriera all'esercizio della democrazia. Gli scienziati della politica hanno coniato in proposito il termine di cartel party, cartello di partiti, per indicare questo assetto di duopolio, che emargina le voci e le culture politiche dissenzienti e realizza invariabilmente le medesime politiche alternandosi alla guida degli esecutivi.
Ma è la scelta di equidistanza tra le classi, il moderatismo sociale che oggi fa del PD – sia detto con tutta la responsabilità che l'argomento e il momento richiede – un partito inservibile. Esso ha privato la società italiana di una opposizione che portasse i bisogni del paese dentro il Parlamento. Qualcuno dei lettori ha mai sentito D'Alema, Veltroni, Bersani parlare, poniamo, di legge urbanistica e di problemi della città, di assetto del territorio, di riscaldamento climatico, di agricoltura biologica, di ritmi di lavoro e di sfruttamento in fabbrica, di beni comuni ? Non aggiungo nell'elenco precarietà e disoccupazione, perché sono presenti nel loro vocabolario, ma come slogan privi di qualunque contenuto. Mi permetto di continuare con le domande. Quanto la sfida che Marchionne ha lanciato alla Fiom e alla classe operaia di Pomigliano e di Torino si fonda sul calcolo di un'opposizione benevola di tanta parte del PD? E infine una questione generale, relativa alla vita politica italiana recente: quanto il dilagare della Lega nelle zone operaie del Nord, quanto la permanenza del potere berlusconiano, anche in queste ultime settimane, dipende direttamente dall'assoluta incapacità del PD - culturale ancor prima che politica - di rappresentare gli interessi delle masse popolari, di offrire agli italiani un progetto e almeno un'immagine diversa di società?
Il moderatismo politico non è oggi una scelta di prudenza, di politica dei piccoli passi. Non è la moderazione, piuttosto è un galleggiamento sull'esistente. Ma l'esistente, dominato oggi da forze predatorie, non rimane fermo, tanto meno procede verso il meglio, come del resto mostra tutto lo scenario che abbiamo intorno a noi. Si indietreggia lentamente sul terreno sociale, dei diritti, della democrazia. In una fase storica in cui solo la ripresa del conflitto può ridare equilibrio alla macchina economica e alla società, significato e forza alla politica, i partiti moderati sono inservibili. Sono oligarchie parassitarie. Danno ospitalità permanente a professionisti che vivono di politica. E dobbiamo amaramente concludere: a che serve un PD che crede di uscire dalla situazione in cui siamo precipitati replicando la politica che ci ha condotti sino a questo punto?
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