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Francesco Erbani
Gli intellettuali per il paesaggio
25 Ottobre 2007
Il paesaggio e noi
Ancora un grido d’allarme, ancora proposte concrete contro la distruzione del patrimonio nazionale. Chi ascolta? Da la Repubblica del 25 ottobre 2007

Duecentoquarantamila ettari ogni anno. Che moltiplicato per quindici fa tre milioni e seicentomila. Un territorio grande quanto Lazio e Abruzzo messi insieme. Ecco quanto suolo libero da costruzioni ha perso l’Italia fra il 1990 e il 2005. Le cifre danno noia, ma rendono meglio delle parole. Le fornisce l’Istat e le cita Vittorio Emiliani in un convegno organizzato questa mattina dalla Provincia di Roma e dal Comitato per la bellezza (Paesaggio italiano aggredito: che fare?, ore 9,30, Palazzo Valentini).

Il convegno vuole guardare avanti. Proporre strategie. Ma intanto sono i numeri che danno la dimensione dell’espansione edilizia, che in Italia convive paradossalmente con un’allarmante emergenza casa. Si costruisce tanto, ma soprattutto abitazioni private, costose e in zone pregiate. Non si soddisfa un bisogno crescente e si aggredisce il paesaggio: fino ad alcuni anni fa prevalentemente quello costiero, ora quello dell’interno. Sempre sulla base dei rilievi Istat, citati da Emiliani, si scopre che è la Liguria la regione che ha consumato più suolo in quei quindici anni: il quarantacinque per cento dell’intero suo territorio. Seguono la Calabria (ventisei), l’Emilia Romagna e la Sicilia (ventidue), la Sardegna (ventuno), il Lazio (diciannove). La media italiana è diciassette, ma va aggiunto che dal calcolo è esclusa l’edilizia abusiva, che è ancora un dieci per cento di tutto quello che si costruisce, soprattutto nelle regioni meridionali.

Una delle vie indicate dal convegno è quella di una legge che ponga un limite al consumo di suolo. È una prassi europea, spiega nel suo intervento l’urbanista Vezio De Lucia citando gli studi contenuti in No Sprawl, un libro curato da Maria Cristina Gibelli ed Edoardo Salzano (Alinea). Altre cifre: in Germania è in vigore dal 1998 una norma che ha fissato una soglia di trenta ettari al giorno, un quarto di quanto effettivamente si costruisse a quel tempo, vale a dire quarantaquattromila ettari l’anno che era pur sempre un sesto di quanto si costruisca oggi in Italia. La legge fu voluta dall’allora ministro dell’Ambiente, che si chiamava Angela Merkel. Più antica è la tradizione inglese. Racconta l’architetto Richard Rogers (in un’intervista al trimestrale Terzo Occhio): «A Londra abbiamo avuto un incremento di popolazione di un milione di persone in dieci anni e non abbiamo toccato un solo metro quadrato di green field, la campagna intorno alla città». In Gran Bretagna si è stabilito che per almeno il settanta per cento le nuove costruzioni devono sorgere riciclando aree urbane esistenti, per esempio ex stabilimenti industriali. «A Londra», aggiunge Rogers, «il sindaco Ken Livingstone ha portato la quota al cento per cento».

L’assalto al paesaggio ha condizioni politiche e finanziarie. L’urbanista Paolo Berdini ricorda che le entrate dei comuni italiani derivano, per una media del sessanta per cento, dall’Ici e dagli oneri che pagano i costruttori. Il che significa che per fare cassa i comuni trovano conveniente dare concessioni edilizie e sprecare territorio. Come? Per esempio a Roma «sono stati aperti ventotto grandi centri commerciali con superficie superiore a un ettaro». Poi ci si accorge che provocano paurosi intasamenti di traffico (accade per l’immenso insediamento chiamato Porta di Roma est, definito il più grande d’Europa) e allora si decide di costruire due corsie autostradali accanto a quelle già esistenti: «Chilometri di asfalto, altre migliaia di ettari di campagna romana cancellati».

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