La sconfitta al Referendum costituzionale. I commenti di Aldo Cazzullo, Goffredo De Marchis e Antonio Padellaro. , 5 dicembre 2016 (m.p.r.)
Corriere della Sera
GLI ERRORI DEL LEADER
di Aldo Cazzullo
E alla fine Matteo Renzi si ritrovò come in una vecchia puntata del Costanzo Show: solo contro tutti. A duellare con Zagrebelsky e con De Mita, a sfidare invano Grillo e D’Alema; se Maciste si fosse schierato per il no, avremmo visto Renzi contro Maciste. Da Napolitano aveva ottenuto l’incarico di governo dietro l’impegno di fare le riforme istituzionali, riportando al tavolo Berlusconi, ricompattando il partito democratico, ridimensionando Grillo. Invece Berlusconi si è sfilato dall’accordo - come ha sempre fatto da quando è in politica -, la sinistra Pd dopo aver detto per sei volte sì in Parlamento ha sostenuto il no, e Grillo non è mai stato così forte. Missione incompiuta, anzi fallita, anche al di là dei suoi demeriti.
Non era impossibile prevederlo. Qualsiasi governo che abbia sottoposto la propria linea agli elettori si è sentito rispondere no, in qualsiasi contesto e latitudine, da Londra a Bogotà a Budapest. L’errore di Renzi non è stato soltanto personalizzare il referendum sulle «sue» riforme; è stato proprio farlo, o meglio chiederlo. Non è inutile ricordare che il referendum non era obbligatorio: la Costituzione non lo impone, lo consente qualora sia mancata la maggioranza dei due terzi e ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera, 500 mila elettori o cinque assemblee regionali. Renzi non ha atteso che fossero le opposizioni a sollecitare il responso popolare; l’ha sollecitato lui stesso, per sanare il vizio d’origine, il peccato originale di non aver mai vinto un’elezione politica. Ma un conto è difendere il proprio lavoro da forze contrapposte che ne chiedono la cancellazione; un altro conto è chiamare un plebiscito su se stessi.
Il presidente del Consiglio si è mosso come se il Paese fosse ancora quello del 41% alle Europee. Ha sopravvalutato il proprio consenso e ha sottovalutato il disagio sociale. Gli va riconosciuto il merito di aver tentato di restituire agli italiani fiducia nel loro Paese e nel futuro. Ma per tre anni ha ripetuto un solo discorso: l’Italia che torna a fare l’Italia, l’Italia che può fare meglio della Germania, l’Italia che diventa locomotiva d’Europa. Ha recitato un mantra che avrebbe dovuto essere supportato da una robusta ripresa economica; che non c’è. Renzi può rivendicare di aver riavviato la crescita, di aver trovato un Paese con il segno meno e di lasciarlo con il segno più. Ma all’evidenza non è sufficiente; o almeno questo è stato il responso della netta maggioranza degli italiani.
Gli va dato atto anche di aver riconosciuto subito la sconfitta. I discorsi di accettazione gli vengono bene: era già successo anche nel dicembre 2012, quando Bersani lo sconfisse alle primarie. La prospettiva del passo indietro tattico è superata dai fatti. Più realistica una traversata del deserto, che non sarà lunghissima - alla scadenza naturale della legislatura manca poco più di un anno - ma è certo irta di pericoli. Renzi può ancora cercare una rivincita. Ma dovrà mettersi in gioco almeno due volte. Prima nelle nuove, inevitabili primarie del Pd, che non saranno scontate come potevano apparire ancora poco tempo fa. E poi in elezioni politiche che non saranno risolutive come vagheggiava: «Voglio un sistema elettorale in cui la sera del voto si capisca chi ha vinto e chi ha perso», amava ripetere. Ma con il proporzionale vincono sempre quasi tutti, e quasi nessuno perde mai per davvero. Renzi ha ancora la forza di impedire un ritorno al passato? La collaborazione con Berlusconi è una carta di riserva che non è mai uscita davvero dal mazzo, o rappresenta una resa, da far gestire a qualcun altro?
Ci saranno giorni per discuterne. Chi sogna un Renzi addomesticato, riflessivo, quasi mansueto, non conosce il personaggio. Può cambiare strategia; non natura. Può ancora avere una chance; ma una fase si è chiusa definitivamente. Con una sconfitta. Non soltanto non è riuscito a prosciugare Grillo o a prendere i voti di Berlusconi; l’alta partecipazione al voto, che nelle previsioni avrebbe dovuto rafforzare il governo, segna anche un rigetto personale nei confronti del premier. Nella campagna referendaria Renzi ha tentato di tornare il rottamatore della casta; ma dopo tre anni di Palazzo Chigi non è risultato credibile.
Una cosa è certa: Grillo ha ragione di esultare; Berlusconi può rallegrarsi; ma la soddisfazione della sinistra Pd rischia di avere vista corta e breve durata. Gli oppositori di Renzi non hanno un vero leader, né un candidato pronto a sfidarlo. Sono uniti dal rancore personale verso l’usurpatore, e da poco altro. Alla fine hanno fatto miglior figura i Letta e i Prodi, che si sono espressi per il sì senza entusiasmo, rispetto ai Bersani e ai D’Alema, che si sono battuti per un no destinato a far cadere un governo di centrosinistra, in una fase in cui un vento di destra soffia su tutti i Paesi del mondo.
La Repubblica
LA SOLITUDINE DEL PREMIER «SOTTO ASSEDIO IO NON CI STO. PIUTTOSTO VIA DALLA POLITICA»
di Goffredo De Marchis
ROMA. La tentazione di mollare tutto, Palazzo Chigi e segreteria del Pd, tornare veramente a casa a Rignano, lasciare la politica come disse un anno fa nella conferenza stampa di fine anno lanciando la lunghissima campagna referendaria. Tensione al massimo, tutti pendono dalle labbra di Matteo Renzi. La parola tocca a lui, il resto della truppa ha il volto paonazzo di chi ha preso una brutta botta.
Renzi è chiuso nella sua stanza al primo piano della sede del governo. Ha rischiato e si è rotto l’osso del collo, come ama dire. L’aria è pesantissima e i dati sull’affluenza danno la reale dimensione di un capitombolo, lasciando intravedere la sentenza più inaspettata: «Se tante gente va a votare e vince il No, vuol dire che il Paese intende mandarmi a casa». Un responso elettorale, quindi, una rivolta contro di lui. E il Paese profondo non sta nelle condizioni sociali ed economiche immaginate dalla sua narrazione.
All’amico ritrovato Matteo Richetti, qualche giorno fa aveva confessato: «Sono stanco, stanchissimo». Non solo del lungo viaggio per l’Italia, delle notti in bianco, delle maratone in tv. Ma del non essere stato compreso in uno sforzo, secondo Renzi, sovrumano. «Per riportare l’Italia al vertice dello scenario europeo e mondiale, al suo posto». Questo pensava di aver fatto nei mille giorni di governo. Parole confidenziali tra amici, che oggi assumono un altro significato: la resa e la consapevolezza di una sconfitta bruciante, una freccia conficcata nel cuore del renzismo.«Non posso fare finta di niente, davvero non sono come gli altri».
Il modello è il Prodi che torna a Bologna dopo essere stato sfiduciato dal Parlamento. Ma lì c’erano i giochi di palazzo, i tradimenti, le coltellate alle spalle. Qui invece il voto degli elettori. Lo andranno a cercare fin su le colline del Valdarno sapendo che è l’unico leader della sinistra in grado di vincere le elezioni, presto o tardi che siano? Ma il suo orizzonte forse non è quello di David Cameron che dopo la Brexit è stato immortalato su una banchina a mangiare fish and chips. Ma non è ai precedenti che Renzi pensa chiuso nel suo ufficio a Palazzo Chigi. Con Luca Lotti, il portavoce Filippo Sensi, il fotografo Tiberio Barchielli, la squadra instancabile della corsa al vertice. Altri ministri, compresi Maria Elena Boschi e Dario Franceschini, sono a Largo del Nazareno, nella sede del Partito democratico.
Il futuro della politica italiana è un rebus che il premier non risolve stanotte. Oggi pensa a sè e all’amaro della sconfitta. Con zero segnali positivi anche se nella war room renziana qualcuno mostra a “Matteo” alcuni dati. Se l’affluenza sfiora il 70 per cento anche con il 40 per cento di Sì, Renzi intercetta 13 milioni di voti. Sono due in più di quelli presi nel 2014 alle Europee quando il Pd conquistò mil 41 per cento. E con il 45 per cento i consensi sarebbero adirittura 15 milioni. «Ripartiamo da qui», suggerisce qualcuno nella stanza di Renzi.
Si può fare. Tenere la segreteria, dare le carte per un nuovo governo fotocopia che conduca in porto la legge di bilancio e i decreti di fine anno, pilotare la legge elettorale e sfidare subito i nemici interni convocando il congresso dem rimanendo in sella. Dipende dal dato finale. Con un Sì attestato al 45 per cento o sopra, Renzi organizzerà la rivincita, una nuova sfida combattendo «l’accozzaglia». Ma con il 40 per cento, sarà tutto più difficile. «Comincerà un assedio dentro il Pd, la minoranza e le correnti chiederanno di cambiare tutto, non solo il segretario. Basta primarie aperte, voto solo per gli iscritti, un’ offensiva rispetto al Partito della Nazione. Al grido: mai più gli elettori di Cosentino e Verdini ai gazebo del Pd. Li conosco».
Gli alleati per tenere almeno la segreteria non mancheranno. I franceschiniani, i giovani ì turchi, insomma una maggioranza solida per affrontare il congresso e rivincerlo. Ma a quali condizioni? Cedendo su cosa? Già nelle prossime ore, confida il presidente del Pd Matteo Orfini, verranno convocati gli organismi del partito, ovvero una direzione. Potrebbe partire subito il percorso congressuale, prima che si saldi un’asse tra la minoranza e altre componenti. Pier Luigi Bersani, qualche settimana fa, era stato chiarissimo: «Cambiamo le regole del congresso, apriamoci alle associazioni e immaginiano anche un segretario che non venga dal gruppo dirigente dem». Dario Franceschini è come al solito l’ago della bilancia. Ai suoi ha raccomandato: «Ricordatevi come si comportavano i vecchi democristiani. Non si fanno mosse azzardate, calmi con le dichiarazioni fino a quando la crisi non si manifesta nella sua pienezza». Il clima rischia di virare al brutto anche dentro il Pd.
VOLEVA TUTTO, HA PERSO TUTTO
di Antonio Padellaro
Il No venuto dal popolo italiano, forte e chiaro, che ha sbaragliato il tentativo di Matteo Renzi di rottamare la Costituzione della Repubblica ricorda un'altra vittoria del No, quella contro il referendum democristiano del 1974 sull'abrogazione del divorzio che il vecchio Pietro Nenni commentò con parole divenute famose: hanno voluto contarsi, hanno perso. La stessa illusione che ha perduto domenica 4 dicembre 2016 l'ambizioso politico fiorentino, che tra le sue qualità non ha quella della prudenza visto che come un giocatore d'azzardo al tavolo da poker da tre anni a questa parte non ha fatto altro che raddoppiare la posta: dalle primarie del Pd all'occupazione del Nazareno alla conquista di palazzo Chigi.
Poteva accontentarsi di guidare il Paese (anche se con l'imbarazzante soccorso degli Alfano e dei Verdini) fino alla scadenza della legislatura del 2018. Ma una perniciosa bulimia del potere, alimentata dal 40 per cento delle Europee del 2014 gli ha suggerito l'idea di accaparrarsi l'intero piatto. Attraverso il famoso combinato disposto costituito dal dominio sulla Camera (grazie al superpremio di maggioranza previsto dall'Italicum) e dalla trasformazione del Senato in un dopolavoro di nominati (grazie alla riforma Boschi).
Gli è andata male, anzi malissimo. Prima la progressiva crescita nei sondaggi dei Cinquestelle gli ha consigliato di smontare l'Italicum per non ritrovarsi Beppe Grillo seduto al suo posto a palazzo Chigi. Poi, questa notte Renzi è stato sommerso da un plebiscito: non quello che sperava ma di segno diametralmente opposto. Gli italiani sono corsi a votare in massa come nessuno aveva previsto avendo compreso l'enormità della posta in gioco. Così Renzi, che cercava da questo voto la legittimazione mai ricevuta in elezioni politiche, ha ricevuto la più pesante delegittimazione.
Ha voluto la conta e ha perso tutto. Ha travolto nella sconfitta, oltre al suo presente e forse al suo futuro politico, anche il governo e con il governo la stabilità tante volte invocata come bene supremo della nazione. Le sue dimissioni - inevitabili - aprono ufficialmente anche la resa dei conti nel Partito Democratico dove coloro, e non sono pochi, che in questi anni si sono sentiti ingiustamente emarginati e maltrattati non vedono l'ora della rivincita.
Matteo Renzi paga anche per responsabilità non sue ma che ha colpevolmente subìto. Non dimentichiamo che la riforma della Costituzione e il suo s travolgimento fu chiesta, anzi pretesa, da Giorgio Napolitano in quel blitz che in pochi giorni portò alla inopinata giubilazione di Enrico Letta e al conferimento dell'incarico al sindaco di Firenze. Renzi, per dirla tutta, si è imbarcato nell'avventura che lo ha portato al naufragio referendario su mandato imperativo dell'ex Capo dello Stato. Da cui, non dimentichiamolo, si fece anche pesantemente correggere la lista dei ministri, a cominciare da quel Nicola Gratteri, magistrato tra i più autorevoli nella lotta alle mafie, entrato al Quirinale come ministro della Giustizia e poi sostituito in gran fretta da Andrea Orlando. Fu da quel momento che la sua immagine di giovane iconoclasta dei soliti riti della vecchia politica cominciò a snaturarsi.
Su molti altri errori dovrà riflettere Renzi nel caso non faccia seguire alle annunciate dimissioni da premier il ritiro dalla vita politica, già ipotizzato e poi smentito (come troppi suoi annunci del resto). Primo: la Costituzione è patrimonio del popolo italiano non certo di un ceto politico inzeppato da opportunisti e voltagabbana. Secondo: riformare la Carta si può se necessario, ma l'aver trasformato 47 articoli determinati per il funzionamento delle istituzioni in un pasticcio incomprensibile è stato da irresponsabili. Un allarme lanciato dai più illustri costituzionalisti, non solo inascoltati ma definiti dal nuovo che avanza (anzi avanzava) come professoroni, gufi e rosiconi.
Terzo: l'incredibile sovraesposizione mediatica del premier la cui faccia spuntava a ogni ora da ogni schermo televisivo non solo non ha pagato ma ha finito per provocare una reazione di rigetto che certamente ha contribuito ad accrescere la dimensione della sconfitta. Quarto: con l'arroganza, la presunzione, il disprezzo per chi non la pensa come te, con espedienti vergognosi a partire dall'uso delle malattie come propaganda elettorale non si fa molta strada. E alla fine si va a sbattere.