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Giorgio Bocca
Gli angeli nel fango per salvare Firenze
14 Febbraio 2007
Articoli del 2006
4 novembre 1966: un racconto fra solidarietà della paura e stolidità dell'incuria. Per non dimenticare. Da la Repubblica, 8 ottobre 2006 (m.p.g.)

Ci sono le migliaia di negozi, di alberghi, di ristoranti, c´è il turismo perenne della città che appartiene al mondo. E il mostro di fango e di olio, di acqua fetida e di detriti sommerge i ponti, devasta i lungarni e penetra nel cuore antico della città dove cercano di resistergli i fiorentini, umili o famosi che siano, i professori dei musei e delle biblioteche che mettono in salvo centinaia di quadri, di tomi preziosi, quelli che alzano ripari, svuotano le cantine, salvano gli ammalati e gli anziani e anche i cronisti come Franco Nencini che va instancabile per la città dove le luci si sono spente, piove a dirotto per ore, esplodono le caldaie, cadono le case e anche i carcerati devono mettersi in salvo sui tetti.

La mobilitazione dei cittadini è totale. È in prima fila Enrico Mattei direttore della Nazione, il più famoso pastonista d´Italia, cioè uno che ogni sera mette insieme in un unico pastone tutto ciò che è accaduto in politica, e i maggiorenti, il sindaco Bargellini, il presidente Spadolini, i ministri accorsi da Roma. È saltato il gruppo elettrogeno dell´ospedale San Giovanni di Dio, l´acqua sale nei piani, le grida dei duecento malati, sommerse tutte le scorte di viveri salvo venti bottiglie di acqua minerale e dieci polli. Resiste il Ponte Vecchio, ma l´acqua ha distrutto i negozi degli orafi. Sui Lungarni Ferrucci, Serristori, delle Grazie la piena spara le automobili nel fiume o contro le case e dovunque si alza il lamentoso suono dei clacson.

Agli Uffizi sono arrivati il sovrintendente Procacci e il direttore del restauro Baldini. Ci si organizza per il recupero, si porta in salvo tutto ciò che sta nei laboratori: l´Incoronazione di Filippo Lippi, la Madonna del Masaccio, due Simone Martini, un Giotto, formando una catena si portano via i trecento quadri della Galleria dei ritratti compresa l´Incoronazione del Botticelli. Sono in pericolo i ventiquattromila manoscritti della Biblioteca nazionale, i tremila e ottocento incunaboli, le sessantottomila opere musicali.

Ricorda una guardia: dal carcere di Santa Teresa arrivarono dei colpi e la gente si mise a gridare: «La rivolta, la rivolta!». Il terrore regnava nel carcere dove l´acqua aveva raggiunto i quattro metri. Sopraffatte le guardie, un centinaio di detenuti aveva raggiunto il tetto. Alcuni scesero l´angolo e poi si tuffarono nelle acque vorticose, la gente dalle case circostanti li incoraggiava. Arrivò un tronco e una donna gridò a un evaso: «Buttati, buttati!». Lui si buttò, si chiamava Luciano Sonnellini e aveva vent´anni. Il suo cadavere fu trovato ad un chilometro dal carcere in una cantina di via dei Papi. Alcuni riuscirono a entrare in un alloggio vicino, la gente li guardò per un po´ spaventata, ma lo erano di più loro che cominciarono a scusarsi e a spiegarsi. In alcune case finì con conversazioni da salotto: «Prego signora, non vorremmo disturbarla. Appena è possibile ce ne andiamo». «Ma figuratevi ragazzi, siamo tutti figli di Dio». Ce ne erano di quelli con la faccia da far spavento, ma altri come i nostri figli.

Degli evasi ciascuno seguiva il suo destino. Un gruppo andò a svaligiare le armerie, e sapeva dove trovarle. Alcuni si arresero al primo carabiniere, altri tornarono addirittura in carcere. Ce ne furono che raggiunsero in via Manzoni l´istituto delle suore domenicane e per farsi aprire battevano ai vetri del lucernario, chiedevano acqua e cibo. Ma non gli fu aperto. Fu più coraggioso il signor Lumachini che stava in via Manzoni. «Vogliamo solo raggiungere la strada», gli dicevano e lui li fece entrare. Anche qui dal Lumachini comincia una conversazione assurda, quasi salottiera, di grazie e di prego, di fiammiferi che passano da una mano all´altra. Gli evasi offrono sigarette e gli ospiti di casa Lumachini qualcosa da mangiare.

Intanto si conclude felicemente a Ponte Vecchio l´avventura degli orafi che nel ponte hanno negozi e magazzino, tutte le loro fortune. Qualcuno li ha avvertiti dell´alluvione che arriva: Romildo Cesaroni, una vecchia guardia notturna che sorveglia il Ponte Vecchio. Sarà stata la mezzanotte del 3 e Cesaroni telefona a casa della signora Piccini, che ha negozio sul ponte: «Signora è meglio che venga, l´Arno si sta gonfiando da fare impressione». Cesaroni è in attesa della signora all´ingresso del ponte ma in quella arrivano una quindicina di nottambuli, corrono in girotondo e cantano beffardi: «Tra due minuti crolla tutto, è meglio che li diate a noi i vostri gioielli». Arriva il marito della signora, nell´ansia non riescono a aprire il negozio.

Il ponte trema, si sentono terribili tonfi, il vento e l´acqua sbattono sulle casette dei negozi che sembrano sul punto di volar via, la corrente che trascina alberi passa un metro sotto ma la voglia di salvar la roba è più forte di tutto. Baldino, il marito della signora, le dice: «Tu scappa e intanto porta questa roba a casa». «Vien via, vien via!», implora lei. Erano arrivati dei carabinieri e anche loro dicevano di andare via, ma fuori c´erano ancora quei giovanottacci. «Tornai al ponte con altre valigie, saranno state le tre e mezza, era saltata la luce e nel buio pauroso diluviava. Si vedevano dei fari accesi, erano altri gioiellieri. Si prese qualche altra cosa e poi il ponte tremava così forte, sembrava dovesse crollare da un momento all´altro. L´ultima cosa che ricordo è un tronco gigantesco e un´auto che con il muso sbatteva contro il davanzale di una finestra». Ma altri gioiellieri arrivavano e correvano ai loro negozi. Si sentivano i carabinieri gridare: «A vostro rischio e pericolo, a vostro rischio e pericolo!».

Quando a ottanta anni ti entra un fiume in casa. A Montedomini, quartiere di povera gente, c´è il ricovero per gli anziani. L´alluvione ti viene incontro con la figura di un vecchio con il pigiama a righe e la papalina in testa che si è messo a spazzare l´acqua del cortile. Lavora piano, senza espressione in volto, non si capisce se sia un´immagine di speranza o di rassegnazione. Tutti i vecchi sembrano in stato confusionale, non fanno nulla, come annichiliti dalla sciagura. Oppure si perdono in lavori minuti, in gesti senza senso, cercando di togliere l´acqua dalla scala mentre tutta la casa è un lago, o cercando un gatto. Quando hai ottant´anni e un fiume ti entra in casa non è facile capire, muoversi.

Firenze ha anche una guida spirituale, il professor Giorgio La Pira, evangelico e poeta, che dice: «E così si risorge, un mattone dopo l´altro, un mattone per ciascuno senza discriminazioni. Firenze è un´isola, un esperimento nuovo, prezioso. Presto presto, tutto il mondo ora è Firenze, la Russia manda aerei carichi di aiuti, i parroci collaborano con i comunisti». Si impegna un grande laico, il professor Carlo Ludovico Ragghianti, lo storico dell´arte, che esorta uomini di cultura e giovani a soccorrere la città. Il mondo raccoglie la sua voce, arrivano studenti a migliaia. Dormono nelle cuccette dei vagoni abbandonati su un binario morto, salvano quadri preziosi e vite umane.

Si incomincia a far la conta dei danni. Le opere guastate sono 1.400, di cui 221 tavole, 413 tele, 39 affreschi, 122 sculture. Disfatto il Museo delle scienze, distrutta la raccolta degli strumenti musicali, danneggiati il Cristo di Cimabue e gli affreschi di Paolo Uccello, quasi distrutta la sezione etrusca, danneggiato l´Archivio di Stato che raccoglie in trecento sale la storia di Firenze, sommersi i seimila volumi e i corali miniati dell´Opera del Duomo, un milione e trecentomila pezzi delle biblioteche danneggiati, devastati, il Gabinetto Vieusseux, la Sinagoga, l´Accademia dei Georgofili, nove facoltà dell´Università alluvionate con danni irreparabili.

E si scopre l´incuria che ha permesso l´alluvione. C´è un lamento generale sulla mancanza di informazione. Enrico Mattei, direttore della Nazione, fa una pubblica denuncia: «La stanza dei bottoni c´era, ma dietro i bottoni c´era molta insensibilità, molta inefficienza. Ancora ieri mattina a sei giorni dal disastro nelle zone allagate migliaia di persone invocavano pane e acqua potabile. La vicenda di Firenze è eloquente. A una certa ora, un certo giorno, un fiume in piena si è abbattuto su una grande città. Nessuno lo ha visto salire, nessuno ha dato l´allarme, nessuno ha misurato il pericolo».

La città ha pagato errori del presente e del passato, non sono state abolite le pescaie ormai inutili, non sono stati fatti i bacini di difesa e neppure gli scolmatori. Il fiume è un budello stretto fra le colline. Durante la piena l´Arno si è trovato da sé il suo scolmatore sui Lungarni Acciarini e Archibusieri, si è riversato in città. E Firenze è stata costruita nel punto sbagliato, la cosa migliore ma non fattibile sarebbe stata spostarla.

La stampa straniera non è tenera con le nostre autorità. Scrive il Sunday Times: «La nostra inchiesta è giunta alla conclusione che il disastro è stato reso più grave dallo scarico di acqua fatto da una società idroelettrica dal suo bacino. Alle 21 del giorno 2 a trentacinque miglia dalla città sono state aperte le paratie del bacino e si è spalancata la strada a cinque milioni di metri cubi di acqua. Il bacino della diga conteneva acqua in eccedenza per nove milioni di metri cubi».

La logica di chi produce energia spesso non coincide con quella della sicurezza. L´ottimismo degli ingegneri viene spesso pagato con migliaia di morti.

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