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Michael Wines
Gli abitanti delle baraccopoli in Sudafrica protestano per la lentezza delle riforme
25 Dicembre 2005
Megalopoli
Corruzione e crisi economica minano anche riforme minime del dopo apartheid, come l'acqua pulita per tutti. The New York Times, 25 dicembre 2005 (f.b.)

Titolo originale: Shantytown Dwellers in South Africa Protest Sluggish Pace of Change – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

JOHANNESBURG, 24 dicembre – Mandando un segnale che qualcuno definisce sinistro ai dirigenti nazionali, le vaste baraccopoli del Sud Africa hanno iniziato a ribollire, talvolta in modo violento, per protesta contro l’incapacità del governo di offrire una vita migliore, come sembrava annunciare la fine dell’apartheid una dozzina d’anni fa.

In una di queste baraccopoli sul fianco della collina di Durban chiamata Foreman Road, i poliziotti antisommossa hanno sparato proiettili di gomma a metà novembre per disperdere 2.000 abitanti che marciavano verso l’ufficio del sindaco in centro. Due manifestanti sono stati feriti, 45 arrestati. Gli altri hanno bruciato un’immagine del sindaco della città, Obed Mlaba.

L’accusa era senza troppi fronzoli: da quando sono spuntate le mille baracche di Foreman Road circa vent’anni fa, l’unico miglioramento tangibile nella vita degli abitanti sono un rubinetto dell’acqua e quattro gabinetti di legno compensato. Elettricità e gabinetti veri sono rimasti un sogno. Le promesse di nuove case, si dice, sono state cose effimere.

”Questa è la zona peggiore del paese” dice uno degli abitanti, un uomo di mezza età che si presenta semplicemente come Senior. “Non abbiamo tanto bisogno di acqua o elettricità. Abbiamo bisogno di terra e case. Devono trovare terreni e costruirci le nuove case”.

A Pretoria la stessa settimana, 500 abitanti di una baraccopoli hanno saccheggiato e messo a fuoco la casa e l’automobile di un consigliere comunale per protestare contro la limitazione degli accessi alle case pubbliche. Quindici giorni dopo, altri dimostranti hanno bruciato gli uffici municipali di Promosa dopo essere stati sgombrati dalle proprie baracche illegali. A fine settembre, gli abitanti della township di Botleng si sono rivoltati dopo che l’acqua potabile con infiltrazioni dalle fogne aveva causato 600 casi di tifo e forse 20 morti.

Solo giovedì scorso, i funzionari di Cape Town hanno avvertito i residenti di una vasta baraccopoli vicina all’aeroporto della città che potevano essere arrestati se avessero tentato di occupare un complesso di case popolari non finito.

Il ministro della sicurezza del Sud Africa ha dichiarato in ottobre che l’anno precedente ben 881 manifestazioni di protesta hanno scosso gli slums; voci non ufficiali dicono che almeno 50 sono state violente. Non sono state tenute statistiche per gli anni ancora precedenti, ma l’analista David Hemson dello Human Sciences Research Council in Pretoria, stima che il dato ufficiale del ministro è almeno di cinque volte superiore a qualunque paragonabile periodo precedente.

”Credo sia uno degli sviluppi più importanti del periodo post-liberazione” dice Hemson, coordinatore di un progetto sullo sviluppo urbano e rurale per l’istituto. “Mostra che la gente comune ora sente che l’unico modo di andare avanti in qualche modo è scendere per strada e mobilitarsi: e si tratta dei segmenti più poveri della società. È una trasformazione radicale dall’atteggiamento, diciamo, del 1994, quando tutti si aspettavano grandi cambiamenti dall’alto”.

In realtà, il governo ha fatto molti cambiamenti. Dal 1994, il governo del Sud Africa ha costruito e in gran parte consegnato 1,8 milioni di abitazioni minime, di norma 6x8 m., spesso ad ex occupanti di baraccopoli. Più di 10 milioni di persone hanno avuto accesso all’acqua potabile, e un numero incalcolabile di altri sono stati collegati all’energia elettrica o a strutture igieniche di base.

Ma contemporaneamente, dicono i ricercatori, la povertà crescente ha causato a 2 milioni di altri la perdita della casa, e oltre 10 milioni hanno avuto tagliata l’acqua o la corrente per bollette non pagate. È anche aumentato il numero degli abitanti delle baraccopoli, sino al 50%, a 12,5 milioni di persone: più di uno su quattro sudafricani, molti ad un livello di squallore che lascerebbe senza parole la maggioranza degli osservatori del mondo sviluppato.

Per i neri sudafricani, la congiuntura attuale è minacciosamente vicina a quella sopportata sotto l’apartheid. Le prime baraccopoli nere sorsero sotto il dominio dei bianchi, risultato di una politica tesa a mantenere i non bianchi in povertà e privi di potere. Durante l’apartheid, dagli anni ’40 agli ‘80, i governi sradicavano e spostavano milioni di neri, collocandone molti in campi provvisori che diventarono poi baraccopoli permanenti, mandandone altri nelle townships nere che rapidamente attirarono masse di abusivi.

La povertà portò altri milioni di neri a migrare verso le città, dentro a vasti campi nelle fasce esterne di Cape Town, Johannesburg, Durban e altre città.

Sin dai primi giorni, il governo nero del Sud Africa si impegnò a rivolgersi alle miserie della vita nelle baracche. Il fatto che il problema in parte sia peggiorato, dicono ricercatori sociali, urbanisti e molti politici, è in parte il risultato di politiche fiscali che si sono concentrate ad alimentare l’economia da primo mondo che sotto l’apartheid, faceva del paese la nazione più ricca e avanzata d’Africa.

Il basso debito pubblico, la strategia dell’inflazione bassa, si sono costruite sulla premessa che un’economia stabile avrebbe attirato investimenti, e che il benessere si sarebbe esteso ai poveri. Ma mentre l’economia da primo mondo ha subito un boom, ha mancato di sollevare le masse di underclass fuori dalla loro miseria.

La disoccupazione, stimata al 26% nel 1994, è lievitata a circa il 40% come calcolano molti analisti; il governo, che non mette nel conto che ha smesso di cercare lavoro, dice che la disoccupazione è bassa. Le grandi imprese come le miniere e il tessile hanno licenziato i lavoratori manuali, e i settori di attività in crescita come quello bancario o il commercio non hanno riassorbito le eccedenze. Molti dei senza lavoro si sono spostati negli slums.

Sinora, i manifestanti delle baraccopoli si sono concentrati esclusivamente sulle amministrazioni locali, che ne hanno subito la furia. Ma anche se quasi tutti questi amministratori appartengono all’African National Congress di governo, di cui eseguono il mandato sociale e politico, “i poveri non hanno ancora collegato le due cose”, dice Adam Habib, altro ricercatore allo Human Sciences Research Institute che ha completato di recente uno studio dei movimenti sociali in Sud Africa.

Al contrario, il sostegno alla coalizione nazionale del presidente Thabo Mbeki sembra più grande che mai. E Mbeki ha visitato le baraccopoli e townships, promettendo di aumentare la spesa sociale e chiedendo ai propri ministri di migliorare i servizi per i poveri.

Per ora, quasi la metà dei 284 distretti municipali, che hanno l’onere della fornitura dei servizi, non può farlo, afferma il ministro per le amministrazioni locali. I problemi vanno da una base fiscale in diminuzione all’insufficienza degli stanziamenti nazionali, all’AIDS, che ha ridotto i ranghi degli amministratori istruiti.

Incompetenza e avidità sono diffuse. A Ehlanzeni, distretto con quasi un milione di abitanti nella provincia di Mpumalanga, 3 su 4 residenti non hanno servizio di raccolta rifiuti, 6 su 10 non hanno servizi igienici e 1 su 3 non ha l’acqua: il city manager ha uno stipendio superiore a quello del salario annuale da 180.000 dollari di Mbeki.

La frustrazione degli abitanti delle baraccopoli ha iniziato a ribollire a metà del 2004, quando gli abitanti di una zona vicino a Harrismith, circa 200 chilometri a sud-est di Johannesburg, sono entrati in rivolta e hanno bloccato un’autostrada per protesta contro le condizioni di vita. La polizia ha sparato, uccidendolo, su un contestatore diciassettenne. Da allora, le dimostrazioni si sono diffuse in tutti gli angoli del paese.

A Durban, il comune realizza circa 16.000 case minime ogni anno, ma la popolazione delle baraccopoli, ora circa 750.000 persone, continua a crescere oltre il 10% l’anno.

Le 180.000 baracche della città, stipate sino all’inverosimile, sono una cosa da vedere. Sia isolate o con pareti in comune, ricoprono fianchi di colline fra lottizzazioni per i ceti medi, fanno capolino fra le rampe d’uscita della superstrada o si ammucchiano vicino alle discariche. Sono costruite con legname di recupero, metallo, lamiera ondulata, coperture di cellophane fissate con blocchi di cemento. All’interno spesso sono foderate con strati di confezioni per il latte o succo di frutta, vendute come carta da parati nei mercati agli incroci, per tener fuori il vento e gli sguardi dei curiosi dalle fessure delle tremolanti pareti.

Le più o meno 1.000 baracche sul fianco della collina a Foreman Road sono di questo tipo. Un tubo in cima provvede all’acqua, che si trasporta in secchi a ciascuna baracca per l’igiene personale e lavare i piatti. In basso, a circa 150 metri lungo un avvallamento, quattro latrine scavate a mano con un capanno di legno: oggi tutte incomprensibilmente chiuse con un lucchetto. Gli abitanti dicono di andare raramente giù fino ai gabinetti, svuotandosi invece dentro a sacchi di plastica o secchi che si possono periodicamente buttar via o svuotare.

Le baracche da una stanza offrono il tipo più rozzo di rifugio. Un letto di solito si prende metà dello spazio; una tavola ospita le cose per cucinare; i vestiti vanno in una piccola cesta. Non c’è elettricità, quindi nessuna televisione; il divertimento viene da qualche radiolina a pila. Gli abitanti usano stufe a cherosene e candele per cucinare e scaldarsi, con risultati prevedibili. Un anno fa, un incendio alimentato dal vento qui ha distrutto 288 baracche. Un altro incendio nella baraccopoli di Cape Town all’inizio del mese ha lasciato 4.000 persone senza casa.

Qualcuna delle baracche è verniciata con colori di lotta, o decorata con manifesti pubblicitari di latte o tabacco, oppure porta appesi cartelli strappati dai pali della luce, originariamente messi per avvertire che gli allacciamenti abusivi alla rete elettrica avevano lasciato cavi scoperti penzolanti per la strada.

Gli abitanti dicono che il sindaco Mlaba durante l’ultima campagna elettorale ha promesso di costruire nuove case al posto dello slum e su terreni liberi sull’altro lato della collina. Ma poi invece l’amministrazione ha proposto di trasferire gli abitanti in zone rurali lontane dalla fascia esterna di Durban: e lontane dai posti di lavoro da giardiniere, donna delle pulizie e altri lavori umili trovati nei sedici anni di esistenza a Foreman Road.

Senza automobili, soldi per il taxi e nemmeno biciclette per andare al lavoro, gli abitanti hanno marciato in protesta il 14 novembre, ignorando il mancato permesso per il corteo. La dimostrazione è rapidamente diventata violenta.

Più tardi, in un’intervista piuttosto breve, un sindaco Mlaba chiaramente esasperato ha sostenuto che la protesta è stata opera di agitatori, con lo scopo di metterlo in imbarazzo in vista delle elezioni locali del prossimo anno.

”Naturalmente c’è uno scopo politico” ha detto. “Improvvisamente, ci sono dei leaders. Non ce n’era nessuno, ieri. Ci saranno ancora nel 2006 o 2007, dopo le elezioni?”.

Col medesimo sospetto riguardo agli agitatori, il governo del Sud Africa inizialmente ha reagito alle proteste delle baraccopoli ordinando ai servizi segreti di accertare se c’erano degli agenti esterni – una “terza forza” nel linguaggio dei movimenti di liberazione del paese – con l’obiettivo di indebolire il governo.

Gli abitanti scuotono il capo. “La terza forza” dice l’uomo che si fa chiamare Senior, “sono le condizioni in cui viviamo”.

In una baracca da due metri per tre, a un terzo circa dell’avvallamento di Foreman Road, vive Zamile Msane, 32 anni, con sua madre di 58 e tre figli di 12, 15 e 17 anni. La signora Msane non ha un lavoro. Una sorella ha dato alla famiglia dei vestiti usati, un vicino della farina di mais per mangiare. In sette anni, è scappata da tre incendi, nel 1998, 2000 e 2004, perdendo tutto tutte le volte.

E pure la signora Msane, arrivata qui dalla zona orientale del Capo otto anni fa, dice che non ritornerebbe alle campagne dove viveva, perché non c’è niente da mangiare.

Dice che ha partecipato alla marcia del 14 novembre per un motivo.

”Condizioni migliori”dice. “Non va bene qui, perché non ci sono vere case. Fuori c’è fango. Viviamo nella paura degli incendi. D’inverno fa troppo freddo, d’estate fa troppo caldo. La vita è troppo difficile”.

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