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Giungle d’asfalto
29 Settembre 2012
Dalla stampa
Cosa c’è dietro ai tassi di sviluppo a due cifre, e al mito dell’urbanizzazione dell’India: costi sociali e ambientali enormi. Documentato rapporto da The Economist, 29 settembre 2012, postilla. (f.b.)

Titolo originale: Concrete Jungles – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

SAVDA GHEVRA è una espansione periferica di minuscole povere case di mattoni con le porte di latta ammaccata, a ovest di Delhi. Sciami di mosche su fogne a cielo aperto. In assenza di rete idrica, ogni giorno arrivano 55 autobotti. Solo una minoranza delle case, quelle “ pukka”, ha i gabinetti. Si sono piantati degli alberi, ma complessivamente la sensazione non è molto diversa da quella di essere in una baraccopoli.

In teoria Savda Ghevra rappresenta un progresso: un progresso minimo, e del tutto insufficiente. L’area era stata destinata a presunti 500.000 abitanti dello slum sgombrati da Delhi per i giochi del Commonwealth del 2010: pescivendoli del puzzolente fiume Yamuna, sarti, chi trascina il rickshaw, venditori ambulanti a cui erano state rase al suolo le baracche. In alcuni casi erano stati accompagnati a Savda Ghevra, con un lotto assegnato su cui potevano costruire.

Adesso hanno casa e luce elettrica, ma si sono separate tante famiglie: il padre che dorme da qualche parte a Delhi, e gli altri nella nuova casa. Qualcuno si è venduto illegalmente il lotto, cedendolo a speculatori poco raccomandabili. All’angolo si vede una casa in vendita per la cifra improbabile di 2,7 milioni di rupie.

Le città dell’India, quasi tutte, sono prive di identità e rabberciate. Ed è uno dei motivi per cui il paese resta in gran parte rurale. Due terzi della popolazione (833 milioni di abitanti) vive sparsa in 640.000 villaggi. Ci sono politici come A.P.J. Abdul Kalam, ex presidente, o Narendra Modi, primo ministro del Gujarat (che parla di modello “ rurbano”), che vogliono tenere la gente lontano dalle città, e preferirebbero invece portare internet, elettricità, scuole e posti di lavoro verso le zone rurali.

Dato il peso complessivo del voto rurale, va in quella direzione molta spesa pubblica. Si sostiene il carburante diesel che i contadini usano per le pompe. Il programma NREGA crea posti di lavoro assistenziali a basso salario. Il governo paga a prezzi maggiorati grano e riso, per poi rivenderlo a prezzo politico agli abitanti dei villaggi. Così si evitano migrazioni, e in alcuni stati si sostiene la corruzione. Un esponente del governo calcola che il 44% delle razioni alimentari governative svanisca in qualche “buco”.

Certi stati,come il Kerala e Tamil Nadu, hanno servizi pubblici discreti e indicatori sociali accettabili nonostante la lenta urbanizzazione, ma questa resistenza ha un prezzo. La vita nei villaggi è dura per le caste inferiori, per le donne, per le minoranze religiose e di altro genere. Nei villaggi ci sono le peggiori scuole, la peggiore sanità, il lavoro meno produttivo.

Ritardare l’urbanizzazione può significare ritardare il benessere. Quando i contadini abbandonano la terra per le fabbriche, i call centre o altro, crescono il loro reddito e consumi, migliorano tutti i vari indicatori di sviluppo. In Cina oggi è urbana più di metà della popolazione.

Aromar Revi, direttore dell’Indian Institute for Human Settlements (IIHS), racconta che le 100 grandi città del paese, col 16% della popolazione totale, contribuiscono per il 43% al reddito nazionale. Anche chi abita lo slum produce e commercia. Ma sono frequentissimi i casi come Savda Ghevra, che ereditano pessima progettazione e gestione.

Gurgaon, zona terziaria vicina a Delhi, è piena di grattacieli di cristallo ma povera di condotti fognari e fili elettrici, solo ora sta cominciando ad avere mezzi di trasporto pubblici. La Mumbai sempre bloccata in un ingorgo cade a pezzi, specie quando piove.

La popolazione urbana, oggi 377 milioni, cresce di circa 5 milioni l’anno. Storicamente le città crescono per incremento naturale, non per immigrazione. Le cose stanno cambiando man mano le popolazioni delle campagne capiscono l’occasione. Dunque in futuro l’India urbana crescerà molto più in fretta, raddoppiando verso la metà di questo secolo.

Certe città diventeranno mega-città. Secondo alcune previsioni, l’intera costa occidentale potrebbe trasformarsi in un’unica conurbazione, estesa da Ahmedabad in Gujarat al nord, attraverso Mumbai e verso sud fino a Thiruvananthapuram in Kerala. Nell’entroterra Delhi e la regione che la circonda sarebbe un nodo da 60-70 milioni di abitanti people, sempre che ci sia acqua a sufficienza. Entro vent’anni l’India avrà probabilmente dieci città più grandi di New York, ciascuna da almeno dieci milioni di persone: Ahmedabad, Bangalore, Delhi, Mumbai, Hyderabad e Chennai.

Delhi dispone in abbondanza di fondi pubblici, e anche di donazioni giapponesi, che hanno contribuito a finanziare la nuova metropolitana. Anche altre città come Bangalore e Ahmedabad, stanno costruendo metropolitane. Ogni grande centro può attingere a risorse centrali, quelle del Jawaharlal Nehru National Urban Renewal Mission, per nuove infrastrutture. Ma crescono molto anche centri più piccoli. Sono già 53 le città con almeno un milione di abitanti. In alcuni casi sono migliorate, ma tante sono sporche e mal governate.

Gorakhpur è una grande città vicino al confine col Nepal nell’Uttar Pradesh orientale, famigerata per la politica religiosa, la criminalità e il contrabbando. Ha 670.000 abitanti, una pessima situazione sanitaria e strade a pezzi. Ai margini estremi della città c’è un campo da cricket così ricoperto di rifiuti che risulta quasi impossibile vedere il terreno che ci sta sotto. Nelle vie le vacche brucano sacchetti di plastica.

L’India è mal attrezzata per rendere questi luoghi più efficienti in termini sia di sviluppo che di qualità della vita. “Non vedo progressi nella riflessione sulle città” commenta un alto esponente del mondo immobiliare e commerciale. Gran parte dei terreni è di proprietà privata, ma i meccanismi di mercato restano opachi, troppo dipendenti da rapporti familiari e politici.

Particolarmente grave la situazione di Mumbai. “Sull’edilizia in città si innescano delle rivolte” commenta Guzder, uomo d’affari di etnia parsi. Spuntano grattacieli, specie attorno a Sea Link, il ponte che college la parte meridionale a quella settentrionale della città. “Mancano del tutto le infrastrutture fondamentali urbane, non si allargano le strade, non ci sono servizi di polizia”. Prithviraj Chavan, primo ministro dello stato del Maharashtra, dà la colpa di tutti i problemi ai “profondi intrecci tra interessi immobiliari e discrezionalità politica nei finanziamenti”.

Anche nei comuni c’è bisogno di maggiore professionalità. Guzder racconta che a sovrintendere l’intera regione metropolitana di Mumbai c’è un solo urbanista (“e presto andrà in pensione”). Revi calcola che nel 2031 l’India mancherà di almeno 100.000 tecnici — tra urbanisti, ingeneri ecc. —per la gestione urbana. È a capo di una nuova struttura universitaria che cercherà di riempire il vuoto.

Per i ricchi dotati di risorse si prova ad aggirare il problema fondando città nuove. Come Lavasa, in corso di realizzazione su un’area di circa 10.000 ettari di collina affacciati su un lago artificiale vicino a Pune in Maharashtra. Pare bella: quartieri dove si può camminare, buone strutture, una specie di oasi per 300.000 abitanti. Ma è piena di contraddizioni, e sicuramente non può essere un modello per le città destinate ad ospitare un sesto della popolazione mondiale.

Molto più interessante da questo punto di vista l’esempio che troviamo risalendo la costa. Surat, nel Gujarat, 4,5 milioni di persone, fiorente nodo commerciale che non molto tempo fa era una specie di discarica come Gorakhpur. Nel 1994, dopo un dichiarato (mai confermato) scoppio di un’epidemia di polmonite, divenne simbolo di squallore, ingorghi, slum e pessimo governo. Da allora è cambiata. Un’amministrazione efficiente l’ha ripulita. Rifiuti raccolti, trasporti migliorati, strade spazzate, servizi attivati. E, miracolo, si è trattato di riforme durature. Il 96% degli abitanti paga le imposte locali entro i termini. Manoj Kumar Das, oggi sindaco, racconta come negli utlimi dieci anni la popolazione di Surat sia cresciuta in media del 5% l’anno, percentuale tra le più alte del mondo. Secondo i tecnici, nel 2031 potrebbe avere 9,3 milioni di persone, più di Londra.

Aiuta il fatto che l’economia locale prospera, lavorazione dei diamanti, tessili e petrolifere in particolare. Il capo di una delle imprese dei diamanti racconta come quella sua città natale abbia cambiato volto e sia orgogliosa. Gli investitori apprezzano l’energia elettrica senza interruzioni, un traffico che scorre, la mentalità concreta. Migliorano anche le più estreme periferie. In una giornata del torrenziale monsone colpisce per stranezza l’assenza di puzza, sciami di mosche, fango, baccano, anche ala discarica municipale. Funziona, gestita in appalto privato, un modello che le altre città potrebbero imitare anche da subito. E anche la spazzatura si può sfruttare: presto se ne bruceranno 1.200 tonnellate al giorno nell’inceneritore di fabbricazione tedesca.

Impressiona anche il sistema fognario: efficiente, computerizzato, alimentato dall’elettricità di un impianto a biomasse e metano. Sono allacciate alle fogne il 90% delle case. L’ingegnere municipale spiega come le reti idriche siano estese a tutta la città. Si demoliscono gli slum e si realizzano parchi lungo il fiume. Il prossimo progetto è di un sistema di autobus veloci, passerelle di attraversamento sopraelevate, e un parco a tema stile Bollywood ispirato a Disneyland. Si vedono saloni di automobili molto alla moda, marchi commerciali come Jimmy Choo, Burberry, Armani o Gucci arriveranno presto.

Cosa funziona a Surat? Tanti uomini d’affari, il rappresentante dell’associazione gioiellieri, la camera di commercio, un importante giornalista locale, tutti danno la medesima risposta: una buona amministrazione. Quando gli abitanti possono fidarsi di chi li amministra e dei progetti, contribuiscono volentieri al successo della città. Quest’anno i privati hanno piantato 200.000 alberi per migliorare la situazione del verde.

Secondo Das se si dà la giusta motivazione agli enti pubblici e a chi ci lavora, altre città possono fare lo stesso. Per esempio, oggi a Patna, la capital del Bihar dove è nato, tutti hanno la luce elettrica. Quando era un ragazzo ha dovuto studiare con una lanterna.

Nota: questo articolo dell’Economist, che ovviamente sostiene una propria tesi diciamo “liberale” come si addice agli orientamenti della testata, dal punto di vista dei dati proposti è praticamente identico ad altri già pubblicati sulla stampa internazionale, che probabilmente corrispondono a qualche tipo di informazioni standard rese note dal governo indiano in forma aggregata, mai citate. Posso rinviare qui, per una prospettiva forse diversa e ad altre dichiarazioni dei protagonisti, a quello dal Bangkok Post che ho tradotto su Mall alcuni giorni fa (f.b.)

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