La Repubblica, 26 aprile 2015
Di Ruffolo ricordo le apparizioni pubbliche. Rare e forbite. I suoi interventi dotti da keynesiano convinto. Ora è un’altra persona. «Il neoliberismo ha reso la scienza economica qualcosa di enormemente pericoloso: un virus invisibile che può fare, anzi ha fatto, danni enormi al nostro organismo». Il volto che mi guarda e mi parla, in un pomeriggio di sabato, dentro una Roma pressoché deserta, mostra un’ansia particolare. Ruffolo vive in una grande casa. Molto borghese. A ridosso di via Veneto. Ma tutto lo spazio ornato di quadri, di libri, di oggetti è come se non lo interessasse. Le tende semichiuse lasciano filtrare una luce fioca. Un uomo in penombra mi è di fronte: «Ora che la parte biologica sta prendendo il sopravvento su quella sociale mi pare di essermi incamminato su un’altra strada, meno certa, meno luminosa, dove tutto ciò che si è amato e sognato resta prigioniero nella mente, non è più condivisibile con gli altri».
Perché non dovrebbe continuare a esserlo?
«Non c’è una ragione precisa. Si entra, dopo una certa età, in una zona in cui il disinteresse assume una sua purezza infantile. E lì accade che i vecchi amano e sognano molto meno. Quei pochi sogni che faccio mi sembrano cani da guardia. Abbaiano, ringhiano, mi lasciano solo. Con i miei dubbi e le mie assenze».
Quanto l’aiuta pensare di essere stato un economista, uno studioso riconosciuto e apprezzato?
«Conta poco o niente. Oddio, se hai fatto poche corbellerie magari ti verrà riconosciuto da qualcuno che ti dirà anche bravo. Ma se getto lo sguardo a cosa è diventata l’economia, la strada che ha intrapreso negli ultimi decenni, non posso non pensare che le nostre voci inascoltate hanno fallito. O meglio sono risultate troppo deboli di fronte all’avanzata impetuosa del capitalismo».
È la parola “capitalismo” che sembra svuotata di senso.
«Forse. Quando mi occupavo di economia la prima cosa che pensavo era: come riusciremo a far star meglio le persone? L’economia che ci ha travolto non ha dato risposte. Come si può pensare che sia equo un sistema in cui per uno che sta bene dieci o cento soffrono?».
C’entra qualcosa questo discorso con la felicità e l’infelicità?
«No, non lo penso. È stato detto che l’economia è una scienza triste. Ma è una tristezza che non c’entra nulla con l’infelicità. Mio padre diceva spesso: se discuti di economia non dimenticare il problema della fame. L’economia non parla di individui, di storie private. Si aggrappa alle statistiche, al calcolo, alla razionalità. La tristezza è nel cercare a tutti i costi di ridurre l’uomo a un numero. Ma la fame, in qualunque forma si presenti, è di nuovo qui, tra noi. I bisogni primari tornano a essere minacciati».
Cosa faceva suo padre?
«Era capo di gabinetto dell’Istituto Internazionale dell’Agricoltura. Questo prima che arrivasse la Fao. Si occupava, insomma, dei problemi legati allo sviluppo e alla fame. Anch’io volevo fare l’economista. Seguire le orme paterne. Mi laureai in Giurisprudenza nel 1947. Ricordo Roma liberata. Sulle facce delle persone c’erano ancora i segni della guerra ».
Come furono per lei quegli anni?
«Avevo 13 anni quando scoppiò la guerra. Due fra- telli più grandi che combatterono. La mamma piena di apprensioni. Ma non ci fu mai pericolo per me. Vivevamo nel quartiere di San Giovanni. Ho un ricordo del bombardamento di San Lorenzo. I morti allineati per strada. La paura che potesse toccare a qualche caro. La ferocia dei tedeschi e dei fascisti dopo il 1943. I miei fratelli Nicola e Sergio, diventati partigiani, furono arrestati. Entrambi furono presi la notte dell’8 maggio dal famigerato Giuseppe Bernasconi ».
Chi era?
«Uno dei capi della Banda Koch. Li bendarono, li fecero salire su una macchina e li portarono alla pensione Jaccarino. Un luogo ribattezzato il “buco” dove si usciva solo per essere fucilati o torturati in via Tasso. Prendevano chiunque fosse sospettato di attività antifascista. Nell’aprile del 1944 la Banda Koch aveva arrestato Luchino Visconti. Riuscì a salvarsi, nonostante fosse stata emanata sentenza di morte nei suoi riguardi, grazie all’intervento di Maria Denis, un’attrice dei telefoni bianchi che si diceva fosse l’amante di Pietro Koch».
Come si salvarono i suoi fratelli?
«Nicola riuscì a fuggire da un camion, che lo trasportava in una località a Nord di Roma, insieme ad altri condannati, per essere fucilato. Rocambolescamente fece perdere le sue tracce nella campagna romana. Sergio sarebbe stato liberato solo con la liberazione. Ricordo i bombardamenti di San Lorenzo, i morti, la paura che potesse toccare ai miei fratelli partigiani. Quando tutto rinacque la città sembrò piena di speranza