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Simonetta Fiori
Gae Aulenti "Dall´utopia al narcisismo, il tradimento degli architetti"
3 Maggio 2011
Articoli del 2011
A volte delude quando razzola, ma predica bene. La Repubblica, 3 maggio 2011

Il racconto degli ideali di una generazione di progettisti che doveva ricucire il tessuto nazionale a confronto con il presente "Da un certo punto in poi è mancata la scuola che creava intellettuali e non solo tecnici" "Negli anni 0ttanta la politica ha rinunciato alle regole e le città sono cambiate"

«Se mi piace la bandiera italiana?». Gae Aulenti, protagonista del design internazionale, incurva la virgola delle sopracciglia: «Scusi, ma che domanda è?». La casa-bottega di Brera, un palazzetto settecentesco sventrato e ricostruito in un unico spazio interrotto da strette scale di ferro, racconta oltre mezzo secolo di storia nazionale. Le agende del suo lavoro insieme a Rogers e Samonà, la collezione della rivista Casabella, i prototipi della lampada pipistrello, tra gli oggetti forse il più amato. Di lei è stato scritto che è il primo architetto ad aver dimostrato che l´architettura è un sostantivo di genere femminile. Da Tokyo a Buenos Aires, da San Francisco a Parigi e Barcellona, non c´è grande città che non porti un suo segno. È un personaggio-simbolo della Milano razionale e colta, la città degli illuministi, del Verri e del Beccaria, la città della Resistenza, dell´antifascismo, della classe operaia nel secondo dopoguerra, ma le sue origini affondano nel Mezzogiorno, nelle campagne di Calabria e Puglia, figlia della borghesia di Trani nata per caso in Friuli. Una doppia radice sintetizzata in quel bisillabo Gae che è la forma breve di Gaetana, regalo della nonna pugliese.

Lei come si definirebbe?

«Mi sento un´italiana, e basta. Ho forse avuto la fortuna di non vivere in un solo luogo, notando le differenze tra culture e regioni sideralmente distanti. Mio padre lasciò la Puglia per andare a studiare a Ca´ Foscari, e nel 1927 arrivai io. Ma poi d´estate ci immergevamo nel verde e nell´azzurro del Mezzogiorno, dove partecipavo a rituali contadini che hanno lasciato un´impronta nelle mie visioni. Se dovessi indicare l´essenza dell´italianità, vado a cercarla nella diffusa qualità del paesaggio: ovunque la nostra testa riposa sulla bellezza. Un´armonia che sa di eterno. Se ne avverte costantemente la durata della storia».

Nessun contrasto tra le due radici?

«Non direi. Sul finire degli anni Quaranta approdai in una Milano che intrecciava diversi caratteri regionali, idiomi, parlate espressive nutrite dai dialetti. Una trama di grande qualità, che in qualche modo rispecchiava la nostra identità nazionale, che si nutre di differenze. In questo siamo unici, diversi da tutti gli altri popoli. Mi verrebbe da dire che l´italianità è un´aspirazione, più che una condizione acquisita una volta per tutte. Questo incrocio di storie differenti ti obbliga costantemente a interrogarti».

Al Politecnico, appena ventenne, l´incontro con Ernesto Nathan Rogers. Che Italia progettavate di costruire?

«Intanto dovevamo ricostruirla. Milano portava le ferite dei bombardamenti. È una delle ragioni per cui m´iscrissi alla Facoltà di Architettura. L´idea principale era quella della continuità storica e culturale, fisica e concettuale. Bisognava costruire nel rispetto del "tessuto" d´un luogo, del suo ordito più profondo, senza rotture né traumi. Brodskij dice che nella cultura italiana opera un telaio che tesse la sua essenza più profonda, generata dalla piega d´un paesaggio o dalla facciata d´un palazzo. Il nostro dovere di architetti consisteva nel trovare le tracce più nascoste di questa trama».

Chi riuscì meglio in questa ricerca?

«Un esempio può essere la Torre Velasca, simbolo della città insieme al Duomo e al Castello Sforzesco. Negli anni Cinquanta Rogers ed Enrico Peressutti la progettarono in continuità con il passato – la forma della torre – e nel rispetto di un´idea precisa della città. Naturalmente questa scuola italiana era aperta a un vasto intreccio di suggestioni internazionali».

Oggi però non manca il respiro cosmopolita.

«Quel che manca è la scuola italiana, e sappiamo il disastro. Rogers ci ripeteva spesso che il dovere di un architetto era di essere un intellettuale prima che un professionista».

Cosa intendeva?

«Posso leggerle un passo di Vitruvio? "L´architetto sappia di lettere, sia perito nel disegno, erudito nella geometria, conosca molte, molte istorie, diligente ascoltatore di filosofi, s´intenda di sentenze giureconsulti, non sconosca l´astrologia e le leggi del cielo". Ho reso l´idea? Oggi si costruisce senza regole, l´architetto tende ad autorappresentarsi, incurante dell´integrazione con l´identità urbana».

Quando è cambiato il volto delle nostre città?

«Quando l´Italia ha smesso di essere amministrata, ossia un quarto di secolo fa. È negli anni Ottanta che la politica ha rinunciato a definire le regole, e gli architetti ne hanno approfittato, in nome di un principio sbagliato e illusorio: ossia che l´assenza di regole avrebbe favorito invenzione e creatività».

È vero il contrario?

«La regola severa ti costringe all´essenza. Il risultato di questo malinteso è sotto i nostri occhi: le città sono sfasciate. E l´architettura sembra virare in decorazione. Faccia attenzione a molte nuove costruzioni: non c´è più una linea retta. Vanno di moda le geometrie inclinate, per delle stupidaggini. Tanti piccoli Gehry, che scopiazzano rinunciando all´essenza».

La buona architettura nasce dalla buona urbanistica.

«In quegli anni sono venute meno entrambe: il risultato immediato ha vinto sulla lunga scadenza. E l´architettura italiana ha cominciato a perdere prestigio nel mondo».

In che cosa si distingueva un architetto italiano?

«Dalla capacità di disegnare tutto, dal piccolo oggetto alla casa che deve ospitarlo. Un confronto con lo spazio che includeva urbanistica, architettura, design».

Dietro l´invenzione del design c´era la trasformazione dell´Italia da paese contadino a paese industriale. Lei come cominciò?

«La prima cosa che feci fu una sedia a dondolo, marchio Poltronova. Ero totalmente persa. Ma allora si lavorava a contatto con gli operai, non c´era differenza tra produttore e design. Passavo le giornate in fabbrica, pigliando strisce di legno e intrecciandole. Il nostro lavoro era insieme molto artigianale e molto intellettuale, in una trama di corrispondenze con il cinema e il teatro. Oggi ci si interroga meno sulla funzione dell´oggetto, sul suo rapporto con la vita e la società».

Per questo è tramontato il made in Italy?

«Quaranta anni fa i grandi designer erano anche grandi architetti. Oggi sono per lo più decoratori, avendo rinunciato al rapporto con l´insieme».

Lei ha conosciuto le burocrazie di tutto il mondo, dall´americana alla francese, dalla tedesca alla spagnola. In che cosa siamo diversi?

«In Italia puoi vincere un concorso e rimanere senza lavoro se nel frattempo decade l´amministrazione che l´ha bandito. Altrove non è così. A Parigi vinsi la gara per il musée d´Orsay con Giscard d´Estaing, ma lo realizzai nell´era di Mitterrand, che veniva a trovarmi in cantiere. Prevedo l´obiezione: ma quella è la burocrazia francese, lo Stato forte. No, è accaduto anche nella più fragile Spagna: per costruire il museo nazionale della Catalogna ci sono voluti diciotto anni e non so quante amministrazioni. Però ce l´abbiamo fatta».

Come architetto donna s´è mai sentita discriminata?

«Appena arrivata a Parigi, al primo incontro ufficiale dopo aver vinto la gara, mi domandarono perplessi "Où est Monsieur Aulenti?". Pensavano fossi la moglie. In Italia ho sempre fatto finta di niente. Aiuta».

Le piace il nostro tricolore?

«Mi viene una risposta vigliacca, che però cancello».

La dica.

«Ho sempre preferito la bandiera rossa, ma è troppo facile. La verità è che non ci ho mai pensato».

E lo stellone repubblicano?

«Non me lo chieda. Dei simboli non ci si chiede mai il perché».

Forse non si conoscono molto. L´Italia ha una simbologia dimessa.

«E se le dicessi che è una cosa positiva? Noi siamo una nazione con tante storie e tante culture, che alimentano invenzione e non ortodossia».

Accade spesso che la sua austerità sia enfatizzata come un tratto molto poco italiano.

«Non sono sicura che l´esuberanza sia un tratto nazionale né un carattere meridionale. Se penso alla grande letteratura siciliana, dov´è questa esuberanza? Non è del principe di Salina, piuttosto del personaggio di don Calogero Sedara, esponente della piccola borghesia in ascesa. Forse la gestualità pittoresca è una cifra italiana più recente. Gli esempi pubblici non mancano».

Che cosa non le piace oggi di Milano?

«Non riesco più a leggerla, a interpretarne il movimento e il filo conduttore. I mezzi pubblici ricoperti di pubblicità contribuiscono a questa confusione. Prevale un senso di disordine che non è solo estetico ma civile».

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