Mentre in America è appena uscito l'ultimo libro del critico marxista, titolato «The Modernist Papers», approda finalmente alle nostre librerie la traduzione integrale dello storico saggio che Jameson scrisse oltre quindici anni fa, «Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo», con una postfazione dialettica scritta da Daniele Giglioli Nella sua più recente raccolta di saggi Fredric Jameson conferma uno sguardo analitico che, nel denunciare gli eccessi ideologici, le rigidezze e gli orrori della modernità, coincide per tanti versi con quello fornito dalle tesi del sociologo Zyegmunt Bauman
Remo Ceserani
Il postmoderno a infinite dimensioni
Meglio tardi che mai. La pubblicazione dello storico libro di Fredric Jameson Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo (Fazi, 2007, euro 39,50) nella traduzione scorrevole e precisa di Massimiliano Manganelli, accompagnata da una prefazione dell'autore scritta per l'edizione italiana e da una postfazione molto acuta di Daniele Giglioli, arriva dopo quindici anni dall'edizione americana, dopo altrettanti dalla pubblicazione presso Garzanti del primo capitolo, dopo che altri e successivi saggi di Jameson sono stati tradotti e i dibattiti sul postmoderno - sia come periodo storico (la postmodernità) che come movimento dei costumi, delle idee e del gusto (il postmodernismo) - si sono ampiamente complicati e approfonditi.
Da noi, per la verità, molte discussioni non ci sono state e le idee sono rimaste incerte e sfocate. Un paio di anni fa Romano Luperini poteva pubblicare, ancora una volta confondendo postmodernità e postmodernismo, un libro intitolato La fine del postmoderno (Guida 2005) e scrivere: «Il postmoderno, con il suo disincanto e il suo manierismo giocoso e disimpegnato, in agonia già da tempo, è morto, definitivamente crollato con le due torri di New York. Ma nessuno in Italia sembra essersene accorto». Intendeva, probabilmente, il postmodernismo e certi suoi prodotti letterari. Ma non sembrava tener conto, per esempio, dell'opera di un grande scrittore americano come Don DeLillo, il quale si è lucidamente impegnato a rappresentare, con una scrittura nitida (tutt'altro che giocosa e disimpegnata) i cambiamenti profondi della postmodernità.
Immagini dall'11 settembre
Proprio all'evento rappresentato dalla caduta delle torri gemelle ha dedicato il suo ultimo, arduo romanzo, The falling man (Scribner, 2007) presentando quel crollo non come un fatto isolato, di portata epocale, ma come la realizzazione simbolica e mediatica di scenari apocalittici che aveva affrontato in tante sue opere precedenti. E captando, così, con le sue antenne sensibili, i movimenti minacciosi che agitavano, sotto la superficie levigata e splendente, gli strati profondi delle società postmoderne.
Quegli scenari erano già comparsi nel suo primo libro, Americana che aveva per tema - era il 1971 - la disfatta delle realizzazioni orgogliose del capitalismo trionfante e del «sogno americano». Sei anni dopo, fondali simili erano comparsi in Giocatori, e avevano la forma di trappole crudeli capaci di sconvolgere la vita quotidiana di un agente finanziario, che lavorava proprio in una delle torri. E, ancora, DeLillo ambientava I nomi fra complotti e terrorismi del vicino oriente, e immaginava - in Mao II - il fondamentalista Abu Rashid auspicare che il «terrore» potesse rendere possibile un nuovo futuro. Finalmente, in Underworld l'intero continente americano veniva trasformato in una colossale produzione di massa, e in Cosmopolis il protagonista attraversava tutta Manhattan sotto l'ombra profetica delle due torri, sei mesi prima del crollo.
Domande rilanciate
L'11 settembre va preso, a me pare (e credo che tanto Jameson quanto DeLillo sarebbero d'accordo) come uno dei tanti eventi catastrofici che si sono avvantaggiati di quella ripetizione all'infinito resa possibile dal grande mercato postmoderno delle immagini, che hanno segnato e confermato i cambiamenti profondi avvenuti nelle strutture economico-sociali del mondo globalizzato. Accanto ai trionfi della tecnologia, agli arricchimenti favolosi, ai tanti piccoli paradisi in terra, si sono sviluppate e moltiplicate le guerre neocoloniali, le espansioni delle multinazionali - anche del terrore - la politica di prepotenza, le deviazioni dei servizi segreti, lo sfruttamento fuori controllo delle fonti energetiche e i suoi pericolosi effetti sugli equilibri ecologici del mondo.
Al valore simbolico della caduta delle torri accenna anche Giglioli nella sua intelligente postfazione, in cui si impegna con logica stringente a chiarire molti punti dei densissimi discorsi di Jameson, ad aggiornare i problemi e a rilanciare molte domande. Inoltre, con una mossa finalizzata a dare voce alle critiche avanzate dagli studiosi a questo libro, fa l'elenco dei fatti che hanno spinto il mondo in direzioni diverse da quelle a suo tempo previste da Jameson: il ritorno dei nazionalismi, delle guerre e delle fedi religiose, le tendenze essenzialiste e sostanzialiste e, appunto, lo sconvolgimento provocato dall'atto terroristico del 2001. Dunque, pur mantenendo una posizione non del tutto coincidente con quella di Jameson, Giglioli prova dialetticamente a mettersi dal suo punto di vista e, tenendo conto del grande lavoro svolto dopo la stesura, nel 1991, di Postmodernismo non ha difficoltà a riconoscere la correttezza delle scelte di metodo del critico americano e la sostanziale tenuta della sua tesi storiografica principale. Tesi secondo la quale un cambiamento profondo e strutturale, avvenuto in particolare nei modi della produzione e nell'organizzazione dei mercati, compresi i mercati dei prodotti culturali, avrebbe determinato, almeno nei paesi a capitalismo avanzato, una spaccatura profonda negli anni Cinquanta-Sessanta del Novecento e determinato la fine delle ideologie e dell'immaginario della modernità.
Contraddittoria com'è, la cultura italiana ha mostrato a lungo un forte sospetto per le tesi di Jameson, del resto poco note o mal masticate; e, per contro, ha elargito una grande apertura di credito a Zygmunt Bauman, in particolare da quando ha proposto di sostituire al termine postmodernità quello di modernità liquida, sfornando in quantità libri di accattivante lettura. Eppure, i suoi saggi, sebbene muovendosi sul piano sociologico anziché su quello teorico e della critica culturale, sostengono interpretazioni del moderno e del postmoderno non molto diverse da quelle di Jameson. Come si spiega? Certo i libri di Fredric Jameson non soltanto sono densi di pensiero e saturi di inaspettate svolte interpretative, ma impiegano una quantità disorientante di strumenti euristici. C'è, in lui, una vera ingordigia intellettuale, che ha un parallelo soltanto in una altrettanto smisurata ingordigia materiale, mai davvero appagata: prima lo studio della filosofia marxista e delle rielaborazioni di Lukács, Adorno, Marcuse e Althusser; poi Heidegger, poi l'immersione dentro lo strutturalismo linguistico sia di ambiente francese che est-europeo, poi il decostruzionismo, il poststrutturalismo, le idee di Gramsci, Benjamin, Foucault, Negri, e chi più ne ha più ne metta.
La sua grande forza, in tanta abbondanza di stimoli, sta in una genuina capacità di vedere come sia provvisoria, ogni volta, la scelta del punto di osservazione assunto davanti alla complessità dei fenomeni culturali studiati; così come nella capacità di individuare, in ogni fenomeno, sia l'aspetto immediatamente percepibile sia il suo opposto, l'altra faccia nascosta.
Chi si sofferma soprattutto a rilevare, di Jameson, l'insaziabile curiosità e la prodigiosa, a volte non del tutto controllata, capacità di riflessione e di scrittura, rischia di non accorgersi della coerenza di fondo del suo lavoro di storico e di critico della cultura, fermamente ancorato ad alcuni principi di metodo che non abbandona mai, e fra questi la dialettica marxista interpretata in modo non rigido bensì continuamente aggiornata.
Uno sguardo retrospettivo
Uno degli aspetti più interessanti del percorso intellettuale di Jameson sta nel fatto che, dopo avere applicato la sua griglia interpretativa della postmodernità ai più diversi esempi della produzione culturale - dalla architettura al romanzo alla storiografia alla fantascienza al cinema alla televisione ai video alla fotografia alle installazioni al ready-made e così via - con una mossa teoricamente coerente ha spostato la sua attenzione sulla modernità. Per descrivere efficacemente un periodo storico e le culture che lo hanno segnato è utile, infatti, distaccarsene. Sono nati così libri come Una modernità singolare, sul quale si è ingannato non solo Luperini, che vi ha letto segnali di abbandono del postmodernismo e di ritorno al modernismo, ma anche Carla Benedetti, autrice di una premessa alla traduzione italiana che fornisce una interpretazione tendenziosa delle posizioni di Jameson.
Del resto, una conferma dell'itinerario intrapreso dal critico di Duke viene anche dal suo nuovo libro, appena giunto dagli Stati Uniti, che sotto il titolo The Modernist Papers (Verso, 2007) raccoglie i saggi che negli anni ha dedicato ai problemi della modernità e a scrittori come Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, Mann, Joyce, Proust, Gertrude Stein, Williams, Soseki, Oe, Kafka, Céline, Stevens, Weiss; e a pittori come Cézanne, o De Kooning, affrontando molte altre questioni ancora. La descrizione che - in questi saggi - viene data della modernità, rivela uno sguardo critico, che nel denunciarne gli eccessi ideologici, le rigidezze e gli orrori, in più punti coincide con l'ottica di Bauman.
Giudizi da rivedere
Dopo avere elencato i giudizi tradizionali e stereotipati solitamente proiettati sui movimenti modernisti - la presunta apoliticità, il ripiegamento sul soggetto, la psicologia introspettiva, l'esteticismo e le teorie dell'arte per l'arte - Jameson osserva: «nessuna di queste caratterizzazione mi sembra ormai persuasiva; sono parte di un vecchio bagaglio ideologico modernista, che qualsiasi teoria contemporanea del moderno ha il compito di sottoporre a scrutinio e di demolire». E allora, a forza di energia distruttiva e di spirito dialettico, Jameson si mette all'opera: modernizzazione e tecnologia, reificazione consumistica, astrazione monetaria, generale perdita di significato, frammentazione del tempo e dello spazio, casualità del dettaglio e «contingenza» delle esperienze esistenziali, dereificazione della città e della vita sociale, accentuato interesse per gli stili e le poetiche, formazione della cultura di massa, e così via. Pochi scrittori si salvano. Forse Joyce, perché «Dublino non era esattamente una matura metropoli capitalista, ma, come la Parigi di Flaubert, aveva un carattere regressivo, era ancora in certo modo simile a un villaggio, non abbastanza sviluppata, grazie al dominio esercitato da padroni stranieri, e perciò era ancora rappresentabile». Che ci sia, a questo punto, da dare un giudizio meno drasticamente negativo della condizione postmoderna?
Benedetto Vecchi
Un pensiero critico che ha colto nel segno
Strano destino quello del Postmodernismo, il volume di Fredric Jameson che Fazi ha mandato alle stampe nella sua edizione integrale. Un'opera che aveva preso le mosse da alcuni saggi apparsi sulla «New Left Review» quando il Muro di Berlino sembrava una presenza destinata a durare ancora per secoli, ma che era stata pubblicato negli anni in cui le macerie di quel muro venivano vendute come souvenir di un'era lontana nel tempo. Una manciata di anni, giusto il tempo per inscrivere Jameson tra le schiere osannanti il nuovo ordine mondiale. Una vera e propria beffa per uno studioso che riteneva il postmoderno niente altro che la logica culturale del capitalismo maturo, invitando a cercare tra le righe dei testi lukacsiani o della dialettica negativa di Adorno il grimaldello per scardinarla. Jameson non mostrava infatti nessuna indulgenza verso la retorica sulla fine delle grandi narrazioni che un filosofo francese a lui contemporaneo, Jean-François Lyotard, distribuiva a piene mani attraverso i suoi saggi.
Il capitalismo maturo, argomentava Jameson, è una totalità che all'interno dell'oscillazione tra omologazione e differenza, preferisce quest'ultima per alimentare un pluralismo degli stili di vita e la presenza di identità prêt-à-porter. E per meglio esemplificare la sua riflessione sceglieva di sezionare manufatti culturali tra loro eterogenei, dalle opere architettoniche che devono ostentare il potere delle multinazionali, o la gentrification delle metropoli americane, ai romanzi di Thomas Pynchon, che destrutturano la progressione lineare del tempo storico. Per Jameson, lo sviluppo del capitale mina infatti alla radice il progetto del Moderno, radicalizzando però alcune tendenze già presenti nella modernità. Una miniera di suggestioni la sua, che hanno aperto filoni di ricerca fino ad allora ignoti, arrivando a presentare le opere dell'ultimo Derrida o di Michel Foucault non come testi filosofici, bensì come espressioni, seppur sofisticate, di una sociologia del capitalismo maturo.
Poi la storia ha seguito il suo corso e le tesi di Jameson sono state liquidate come un sofisticato esercizio accademico. Al posto del pastiche postomoderno sono subentrate le identità forti basate sulla religione o sul sangue, un pensiero liberaldemocratico che sceglie come sua radice un illuminismo depurato della sua dialettica e che punta l'indice contro i postulati egualitari della democrazia, mentre la risacca plumbea dello tsunami della globalizzazione ha aperto la strada alla guerra infinita al terrorismo. Insomma, il postmoderno di Jameson poteva essere lasciato alla «critica roditrice dei topi». Ma a differenza di quanto sostengono i passati e attuali critici era sì giusto archiviare la sua riflessione, ma perché aveva colto nel segno. Postmodernismo è stata infatti un'opera seminale senza la quale sarebbe stato impossibile pensare a un pensiero critico all'altezza della grande mutazione del capitalismo mondiale. Il problema, semmai, è continuare la sua esplorazione del presente, considerando il revival liberaldemocratico o la retoriche attorno alle identità forti come varianti di quella condizione postmoderna che Jameson ha insegnato a guardare senza rimanerne pietrificati.