Se il "global warming" va sotto processo
Pascal Acot
Quella che stiamo vivendo in questi anni è una svolta indiscutibile nella storia del clima. Il pianeta si riscalda sempre di più. Il global warming è un processo complesso che non è certo rimesso in discussione dall’attuale ondata di freddo abbattutasi sull´Europa. La situazione di questi giorni - che per altro non è assolutamente eccezionale, visto che negli ultimi decenni bbiamo conosciuto periodi anche più freddi - è piuttosto il segno di un progressivo sregolamento climatico dovuto all’innalzamento globale della temperatura.
Nel corso del secolo scorso la temperatura del pianeta è aumentata dello 0,6 per cento, con un margine d’errore dello 0,2 per cento. Forse non siamo ancora di fronte a una tragedia irreversibile, ma ciò non significa che non si debba intervenire. Anche perché non siamo assolutamente in grado di fare previsioni affidabili.
L’unica certezza è il ruolo fondamentale svolto dalle attività umane nel processo che aggrava il riscaldamento del pianeta, riscaldamento che finora era solo di origine astronomica. E siccome la prossima fase di glaciazione sarà tra 50 mila anni, non possiamo contare sulla variabile astronomica per combattere la deriva del clima.
La natura non può rimediare ai nostri errori, anche se alcuni fenomeni sembrerebbero indicarlo. Ad esempio, secondo alcune ricerche, lo scioglimento dei ghiacci polari dovuto al riscaldamento climatico metterebbe in moto un processo naturale in grado di combattere l’effetto dei gas serra.
Si tratta solo di un’ipotesi, che se fosse confermata mostrerebbe quanto possa essere imprevista l’evoluzione climatica. Sapere che la natura sa reagire, non dovrebbe però spingerci all’attendismo. Invece, forse inconsciamente, coltiviamo tutti l’illusione che la natura sia capace di ristabilire da sola il proprio equilibrio. La pensiamo come una realtà indistruttibile e tale percezione diventa un alibi per non agire e addirittura per non rispettare gli impegni già presi.
Si pensi ad esempio al protocollo di Kyoto, che finora non è riuscito a ottenere i risultati auspicati. I gas serra dovevano diminuire e invece tra il 2005 e il 2007, la Spagna ha aumentato le emissioni di gas serra del 53 per cento, il Portogallo del 43 per cento e l’Irlanda del 26 per cento. Per non parlare dell’impatto sull’ambiente delle cinquantadue centrali a carbone messe in cantiere dalla Cina.
Insomma, nonostante gli accordi di Kyoto, la situazione si degrada, forse perché le popolazioni non percepiscono ancora le trasformazioni climatiche come una vera minaccia.
Quando si parla del riscaldamento del pianeta si dimentica spesso che le maggiori conseguenze di tale situazione ricadranno sui paesi più poveri, per i quali l’ecologia è un lusso insostenibile. Quando non si sa come nutrire i propri figli, non ci si preoccupa certo del riscaldamento climatico e si cerca solo di sopravvivere. Anche nei paesi occidentali, a pagare saranno soprattutto le popolazioni più fragili vale a dire i bambini, gli anziani, i malati e i più poveri. Questa vulnerabilità però non è quasi mai presa in considerazione, rimuovendo quindi le conseguenze concrete prodotte dai cambiamenti climatici, conseguenze che saranno una vera e propria tragedia per moltissime persone.
Ecco perché il global warming non è solo un problema ecologico, ma anche e soprattutto un problema sociale e politico. Le catastrofi naturali, sempre più frequenti degli anni a venire, vanno viste innanzitutto come catastrofi sociali, i cui costi economici e umani risulteranno ogni volta più drammatici. La battaglia, quindi, non può svolgersi solo sul terreno ecologico, deve spostarsi sul sociale.
Accanto alle misure per limitare le emissioni dei gas serra, bisognerebbe già intervenire per aiutare le popolazioni ad adattarsi a un´evoluzione climatica ineluttabile.
Ad esempio, dovremmo aiutare i paesi che si affacciano sul bacino del Mediterraneo ad affrontare siccità sempre più gravi. Occorrerebbe un piano straordinario di interventi di medio e lungo periodo per evitare terribili drammi umani e flussi migratori sempre più incontrollabili.
In una fase di crisi economica come quella attuale è però difficile pensare politiche straordinarie capaci di mettere in campo ingenti risorse. Di fronte alla crisi, chi governa sceglie sempre le soluzioni più economiche, senza rendersi conto che quasi sempre sono le più costose sul piano ecologico. Anche l’industria mira esclusivamente al profitto immediato, senza preoccuparsi del costo per la collettività delle sue scelte, rivelando così una contraddizione insanabile tra economia e ecologia, tra interesse privato e interessi collettivi. Per questo, una politica preoccupata della difesa del pianeta avrebbe bisogno di un forte impulso pubblico e di una pianificazione capace di proiettarsi nel futuro. Senza la pressione dello Stato, le imprese non prenderebbero mai misure a difesa dell’ambiente, di solito molto costose e senza benefici economici immediati.
Purtroppo le élite politiche ed economiche si sono sempre dimostrate lontane dai problemi reali della gente, usando l’ecologia solo per fare qualche risparmio. Lo Stato di solito si limita a incitare i cittadini a cambiare i loro comportamenti (una politica che non costa nulla), quando invece sarebbe necessario un sostegno tecnologico ed economico alle imprese, affinché abbandonino le tecnologie più inquinanti. Per non parlare delle misure contraddittorie: si tassano le automobili più inquinanti, ma si lascia esplodere il trasporto su strada. Insomma, mancano politiche coerenti e di lungo periodo. Si aspetta di essere con le spalle al muro per intervenire, ma così facendo si arriva sempre troppo tardi.
Un’economia non distruttrice della natura non può che nascere in un contesto molto dirigista che pone vincoli e tiene conto innanzitutto dell´interesse futuro della collettività.
Di recente, in occasione della crisi finanziaria mondiale, abbiamo assistito a un interventismo statale molto accentuato. Questo stesso atteggiamento, fatto di decisionismo e volontarismo, sarebbe necessario anche sul piano ecologico. Come pure sarebbe necessario che la sensibilità ecologica - indubbiamente oggi più diffusa che in passato - si trasformasse in comportamenti concreti e scelte operative. Per adesso però quasi nessuno è veramente disposto a cambiare il proprio stile di vita. Sarà probabilmente un processo molto lungo. Il problema però è che nessuno sa dire con esattezza quanto tempo ci resti.
(testo raccolto da Fabio Gambaro)
Ma il tempo non è il clima
Antonio Cianciullo intervista Jeremy Rifkin
Un Capodanno con il cappotto pesante, qualche aeroporto bloccato per neve e subito l’affondo degli eco scettici: «Il global warming rallenta». C’è veramente un´inversione di tendenza? «Nella letteratura scientifica internazionale non esiste traccia di questi dubbi», risponde dal suo studio di Washington Jeremy Rifkin, presidente della Foundation on Economic Trends. «Forse in Italia c’è ancora qualcuno che confonde il tempo con il clima. Eppure il concetto è semplice: provo a ripeterlo. Per capire dove va il clima occorre osservare i lunghi periodi, prendere in considerazione le serie degli anni. E da questo punto di vista il quadro è chiaro: gli anni Ottanta sono stati i più caldi nella storia delle meteorologia, i Novanta li hanno battuti e questo inizio di secolo segue il trend del rialzo di temperatura».
Anche con un Natale freddo?
«Ecco, appunto, adesso parliamo del tempo, cioè della meteorologia che, tra l’altro, si sta comportando esattamente secondo le previsioni degli scienziati Onu: aumentano gli eventi estremi. In questo caso, per la verità, non si è neppure registrato un evento estremo. Semplicemente non c’è una progressione meccanica; non succede che ogni Natale sia un po’ più caldo di quello precedente, anno dopo anno, in modo geometrico. Registriamo sbalzi in alto e in basso: quello che conta è la tendenza».
E la tendenza in che direzione ci porta?
«In una direzione pessima. Già le previsioni dell’Ipcc sono preoccupanti, ma James Hansen, il più importante climatologo degli Stati Uniti, dopo una lunga ricerca sul campo ha lanciato un allarme che deve far riflettere: fermare la concentrazione dell’anidride carbonica in atmosfera a 450 parti per milione non basta se vogliamo evitare uno scenario catastrofico».
Abbiamo già superato le 380 parti e fermarsi a quota 450 viene considerato un obiettivo ambizioso.
«Hansen ha fatto dei carotaggi sul fondo dell’oceano e ha ricostruito cosa è accaduto in passato quando la concentrazione di anidride carbonica è aumentata molto velocemente. Se si rimane a quota 450 anche per pochi anni, si raggiunge il tipping point, cioè la soglia di non ritorno, e la temperatura sale rapidamente di sei gradi: un salto che comporterebbe la fine della nostra civiltà».
Qual è il tetto da non superare?
«Le 350 parti per milione. Cioè un valore inferiore a quello attuale: dobbiamo far ridiscendere la concentrazione di anidride carbonica varando piani come quello predisposto dal governo della Gran Bretagna: investire in efficienza e nelle fonti rinnovabili per arrivare a tagliare le emissioni serra dell’80 per cento entro il 2050».
Investire con questa crisi economica?
«La crisi ci aiuta perché il modello della terza rivoluzione industriale, quella basata sull’energia diffusa, sulle fonti rinnovabili e sull’efficienza, è la sola possibilità per far ripartire il motore dell’economia».
Il piano Obama sulle rinnovabili.
«Quel piano coglie solo una parte delle possibilità: manca una coerente visione d’assieme. Non basta limitarsi a creare qualche pezzo di economia che funziona: occorre costruire l’infrastruttura necessaria alla terza rivoluzione industriale e da questo punto di vista il ruolo degli edifici è determinante. Dovremo avere milioni di case e di uffici che invece di consumare energia la producono usando il sole, il vento, il riciclo dei rifiuti. Dovremo muoverci con veicoli a zero emissioni che usano idrogeno ottenuto con energia rinnovabile. Dovremo affinare la tecnologia delle fonti rinnovabili usando anche geotermia, maree, onde. Solo in questo modo riusciremo a risolvere assieme le tre grandi crisi che ci minacciano: la crisi della finanza globale, la crisi della sicurezza energetica, la crisi del cambiamento climatico».
Chi sarà il protagonista di questa rivoluzione?
«Dal punto di vista politico l’Unione europea ha molte carte da giocare perché la sua visione strategica è centrata sulla qualità della vita: punta ad aumentare l’efficienza, a conciliare il mercato con la protezione sociale, a trovare soluzioni che tengano conto della collettività e non solo dell’individuo. Dal punto di vista industriale bisogna compensare vent’anni passati ad accumulare debiti e a investire poco in innovazione e ricerca. Per questo abbiamo costruito il Tavolo dei business leader della terza rivoluzione industriale. Hanno già aderito cento tra presidenti e amministratori delegati delle più importanti industrie a livello globale nei settori strategici: le fonti rinnovabili, l’edilizia avanzata, i trasporti a basso impatto ambientale, le reti intelligenti. Saranno loro a dimostrare che oggi il colore del business è il verde».
I negazionisti del gas serra
Luca Mercalli
Karasjok, nella Norvegia settentrionale, è uno dei luoghi più freddi d’Europa, nel 1886 ha registrato 51 gradi sottozero. Nei giorni scorsi vi faceva più caldo che a Piacenza, con "soltanto" meno nove gradi, nel buio della notte polare. Lassù il dicembre 2008 si è chiuso con sette gradi oltre la media. Quindi, mentre nell’Italia innevata il riscaldamento globale non va più di moda, in Scandinavia si potrebbero fare titoli cubitali sulla sua avanzata. L’aggettivo "globale" serve proprio per evitare questo continuo rumore di fondo focalizzando l’analisi su un dato significativo per l’intero pianeta. Michel Jarraud, segretario generale dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale ha dichiarato che «nonostante l’attuale freddo sull’Europa centro-meridionale, la tendenza generale rimane senza dubbio verso il riscaldamento». Ed è la stessa agenzia internazionale, che dal 1951 coordina le osservazioni meteorologiche di tutto il mondo, a ribadire che il 2008 è stato il decimo anno più caldo dal 1850 (il settimo in Italia dal 1800, dati Cnr-Isac) e ha visto una stagione degli uragani atlantici tra le più attive, con 16 eventi. E i ghiacci artici in aumento? Frutto di un frettoloso giornalismo in cerca di scandali, basato su dati non correttamente interpretati a causa di differenti satelliti utilizzati dal 1979 a oggi per misurare la banchisa artica. (AspoItalia ha fatto chiarezza qui: www.aspoitalia.it/archivio-articoli).
Ma è assurdo trasformare il problema del cambiamento climatico antropogenico in uno scontro da tifoseria calcistica: oggi fa freddo uno a zero per i negazionisti, domani fa caldo e segnano i serristi. Così come è assurda la divisione, aggressiva e improduttiva, tra elenchi di scienziati pro e contro: la scienza non si fa a maggioranza, ma verificando le ipotesi con fatti ed esperimenti. L’Ipcc, tanto vituperato quanto poco conosciuto, non è certo depositario di verità assolute, ma ha posto in essere dal 1988, anno della sua fondazione, un serrato processo di validazione dei dati che è quanto di meglio oggi si sia riusciti a mettere in atto con la cooperazione di tutti i governi.
Il riscaldamento degli ultimi decenni è inequivocabile e l’aumento dei gas serra è il processo fisico che ha maggiori probabilità di spiegarlo, come aveva già intuito nel 1896 il chimico svedese Svante Arrhenius. Sulla previsione del futuro le incertezze sono molte di più, lo diceva già il Nobel per la fisica Niels Bohr, ma da quando nel 1967 Syukuro Manabe e Richard Wetherald del Geophysical Fluid Dynamics Laboratory di Princeton elaborarono la prima previsione numerica computerizzata del riscaldamento atmosferico causato dall´aumento dei gas serra, qualcosa si è imparato e il legame più CO2 uguale più caldo non è mai stato smentito. Semmai è la complessità delle interazioni nell’intero sistema terrestre - atmosfera, oceani, ghiacci, suoli, foreste, alghe, batteri, uomo - rendere per ora limitata la comprensione del problema. Il fatto che poi le risposte all’aumento della concentrazione di gas serra siano lente rispetto alla durata della vita umana e si esplicitino in molteplici modalità, ci priva di quella desiderabile verifica causa-effetto che in altri settori della scienza è talora più netta, ma meno diffusa di quanto si immagini. Se prendiamo la medicina, vediamo che sono ancora molte le patologie mal conosciute. Non per questo si rinuncia alla cura. E considerando il fumo, pur nella concorde affermazione della sua tossicità, nessuno è disposto a credere che quelle cupe minacce stampate sul pacchetto di sigarette si verificheranno proprio su di sé molti anni più tardi. Se le sigarette uccidessero all´istante, il nesso causa-effetto sarebbe chiarissimo e nessuno fumerebbe.
La posta in gioco sul riscaldamento globale è dunque così alta che la sua prevenzione, in sintesi la riduzione dell’uso di combustibili fossili a vantaggio di energie rinnovabili e sobrietà, presenta comunque vantaggi collaterali, come nel caso del fumo, clima o non clima. Consumare meno e meglio, ridurre inquinamento e rifiuti, chiudere i cicli produttivi in un pianeta limitato, è un progetto per la salvaguardia a lungo termine del nostro benessere. Personalmente detesto il caldo e adoro neve e freddo, non sono dunque un teologo del riscaldamento globale, preferirei senz’altro l’avvento di un’era glaciale. Ma le evidenze che qualcosa non funziona nel termostato terrestre sono tanto più numerose di quelle che minimizzano il problema, da non poterle trascurare.