il manifesto dell'11 gennaio 2015 ricorda l'autore de "Le mani sulla città", un film che ha riacquistato la sua attualità nell'Italia de Craxi-Berlusconi-Renzi (ma forse non l'aveva mai del tutto persa).
Rosi non si era conciliato con la tecnologia, già vedere un film su una tv gli era inconcepibile. Non perché fosse un uomo dell’altro secolo, per carità: era tutt’ora molto molto contemporaneo, uno sguardo lucidissimo sulla nostra epoca, e sui guai della sua sinistra. La stessa intelligenza della realtà che aveva avuto da giovanissimo, parte di quel gruppo particolarissimo di intellettuali napoletani socialisti di sinistra che hanno contribuito molto a raccontare il tempo della mia generazione e di parecchie successive.
In mezzo a tanta discussione sul rapporto fra storia e fiction, basterebbero i film di Franco Rosi a far capire quanto e come l’artista - se lo è davvero - riesce a dire, più di chi riferisce di documenti e archivi, della realtà, svelandone, attraverso l’invenzione narrativa, anche quanto non è altrimenti visibile. Un elemento essenziale della politica di cui proviamo oggi una struggente nostalgia. I suoi film sono stati un contributo primario insostituibile alle nostre battaglie del dopoguerra. Franco era passionale, nel senso che ci teneva a che i suoi film suscitassero passioni, alimentassero il fare politico.
Era il 2000, 15 anni fa, e la nuova Cina stava spiccando il volo, già nel mercato mondiale ma ancora terzo mondo. Alla riunione con il giovanissimo direttore della produzione cinematografica cinese che il rappresentante del Ministero dei beni culturali, membro della nostra delegazione, cercava di convincere ad intraprendere il negoziato per un accordo di coproduzione con l’Italia, per cui era necessario un voto parlamentare e un accordo fra governi come per i Trattati internazionali, il giovanotto ci guardò e disse: «Ma ce li avete i soldi? Perché con gli americani di tutte queste procedure non c’è bisogno, ma loro ci hanno i soldi». Non dimenticherò mai la faccia di Gillo, di Angelo Guglielmi allora direttore del Luce, di tutti i nostri, ma soprattutto quella di Franco Rosi.
Scusate se mi perdo in questi anneddoti, ma sono proprio queste vicende vissute assieme che tornano alla mente quando qualcuno scompare. Almeno in un primo momento, perché subito dopo la ferita penetra nel profondo e si avverte il vuoto che la morte lascia quando colpisce una persona come Franco Rosi che per via del suo cinema ha così tanto segnato la nostra cultura e coscienza. Vorrei ricordare però anche anni più spensierati, le serate con Franco e Giancarla nell’attico di via della Croce, o i bagni sulla spiaggia avanti alla loro casa al Villaggio dei Pescatori a Fregene, il luogo mitico dove si radunava allora il nostro miglior cinema: Ettore Scola, Citto Maselli, Franco Solinas, Felice Laudadio… Erano gli anni ’60, un grande tempo e perciò anche un grande cinema
Martedì prossimo, a Venezia, verrà proiettato «Le mani sulla città» di Francesco Rosi, nella versione restaurata dalla Cineteca Nazionale. Si celebra così il cinquantennio del conferimento del Leone d’oro al capolavoro neorealista del regista (sempre quel giorno Rai Movie ne offrirà visione in tv).
Com’è noto, Rosi denunciava lo sfascio urbanistico e politico di Napoli, in grande espansione in quegli anni. Non poteva sapere – ma forse lo intuiva — che la sua opera avrebbe costituito una magistrale, anche se assai inquietante, previsione circa i disastri delle politiche, non solo urbanistiche, che avrebbero segnato l’Italia intera nel cinquantennio successivo. Sfregiandone irrimediabilmente quel volto «illuminato e gentile» colto dai viaggiatori del Gran Tour e che le era valso il soprannome di «Belpaese».
Nel film Rod Steiger (nei panni del costruttore e politico Nottola) che spiega come un terreno agricolo «che vale 500 lire» se diventa edificabile «ne vale 50.000» costituisce una sintesi mirabile del ruolo della rendita speculativa nella crescita urbana, più efficace di molte lezioni di analisi urbanistica. Il film spiega appunto il disfacimento della politica rispetto agli interessi della rendita speculativa (la camorra restava sullo sfondo, allora, o come «utilizzatore finale» di piccolo cabotaggio).
Il film venne premiato con il Leone d’oro nel settembre 1963: un mese dopo si sarebbe registrato il disastro del Vajont, seguito dalla frana di Agrigento e dall’alluvione di Firenze (1966). Eventi che dimostravano già come la crescita urbana, pure ancora relativa –e circoscritta alle città grandi e medio grandi — avveniva a scapito della sicurezza territoriale e della qualità ecopaesaggistica.
Nonostante i disastri, i tentativi di riforma urbanistica e di «nuovo regime dei suoli» portati avanti dal democristiano Fiorentino Sullo con l’appoggio della sinistra socialista e del Pci vennero bloccati, segnando addirittura la fine politica dell’ex ministro. Le emergenze ambientali della crescita territoriale portarono a una serie di provvedimenti normativi parziali, che nell’arco di un decennio, dal 1967 alla fine dei Settanta, avviarono un processo pure timidamente riformista: la legge Ponte-Mancini sulla scissione tra diritto di proprietà e di superficie (1967); i decreti su zoning e standard (’68); la legge sulla casa e gli espropri (1971); l’onerosità della concessione a costruire e degli oneri di urbanizzazione (1977); l’avvio dei piani di recupero (1978).
Questa intenzione – e i modesti tentativi di pianificazione progressista che avevano comportato– venivano frustrati nel decennio successivo da una serie di sentenze della Corte Costituzionale che mettevano in discussione vincoli urbanistici e criteri di esproprio. Annunciavano gli anni Ottanta, con la crisi del welfare state e l’avvio di un ventennio abbondante di iperconsumismo e una sorta di controriforma urbanistica, introdotta dalle sentenze citate e continuata con i tentativi di svuotare le capacità prescrittive dei piani con la cosiddetta «programmazione concertata», in nome di un «Nuovo», che invitava a «Fare», ma in realtà a consumare senza senso né limiti, anche il territorio. E meno male che di lì a poco esplodeva anche in Italia la «questione ambientale».
In realtà, le criticità urbane e le «mani sul territorio» non si erano mai fermate; la rendita speculativa, agraria ed edilizia, diventava prima industriale, poi commerciale e infrastrutturale, infine finanziaria: la semplice operazione di trasformazione diventava un affare, con i relativi lavori più o meno grossi; migliore, se la nuova, anche ipotetica destinazione d’uso, trovava dei potenziali investitori. Neutralizzata la pianificazione efficace, razionalmente basata sulla domanda sociale, la «città diffusa» pervadeva sempre più i vari ambiti del territorio nazionale: una blobbizzazione cementizia industriale che cancellava il paesaggio, seppelliva i beni culturali, degradava l’ambiente, deterritorializzava.
L’ex Belpaese è diventato così il Bengodi delle costruzioni e del consumo di suolo: laddove nel mondo, dal 1945 al 2005, si sono quintuplicati i volumi urbanizzati, e in Europa si è registrata una crescita di quasi otto volte, in Italia tale tasso supera i dieci punti, e nelle tre regioni del Sud ad alta densità mafiosa l’incremento è di oltre 13 volte!
Così, mentre si intensificavano i disastri sismici ed idrogeologici di un territorio fortemente indebolito dalla cementificazione, la quota di suolo nazionale consumato è oggi pari ad oltre il 20% dei 301.000 Kmq di superficie (raddoppio dell’ingombro negli ultimi 15 anni) e si producono costruzioni per una domanda inesistente (oltre 25 milioni di stanze vuote), mentre il bisogno sociale di abitazioni permane inevaso.
Certo, questo è dovuto anche al fallimento della politica: il film di Rosi rappresentava perfettamente il dissolvimento dell’etica e della razionalità sociale che dovrebbe caratterizzare la gestione della cosa pubblica: il sistema decisionale viene prima circuito, poi incorporato dall’offerta di trasformazione urbana e territoriale, dettata da interessi speculativi. Finché –a partire dagli anni Novanta– una governance «ubriacata di pseudoliberismo» se ne fa strumento dichiarato.
Oggi le politiche urbane e territoriali ai diversi livelli sono spesso extraistituzionali, dettate dalle imprese e soprattutto dagli istituti finanziari. Carlo Fermariello, che nel film rappresenta se stesso, è un’icona della buona politica legata alla reale domanda sociale: figura sempre più rara, poi quasi sparita, dalle nostre assemblee elettive.
Per tutto questo – ha ragione Roberto Saviano– il film resta un capolavoro, «una grande rappresentazione non solo di Napoli, ma dell’Italia, anche di oggi». Anche se oggi forse Rosi girerebbe gli esterni in Val di Susa e gli interni tra parlamento e ministeri.