Dilemmi che è impossibile sciogliere se non si sa rispondere prima alla domande: che nesso c’è tra chi con le guerre ingrassa e chi gestisce il potere; e come si può fare per romperlo?
La Repubblica, 20 agosto 2014
Il concetto di “guerra giusta” da decenni dilania le coscienze degli individui e condiziona le scelte degli Stati. Le parole del papa sulla «Terza guerra mondiale fatta a pezzi» sono una formula che sarà consegnata alla Storia. Mirabile fotografia di «un mondo in guerra dappertutto », rilanciano un dibattito, che è senza risposte morali certe e senza soluzioni politiche incontrovertibili, ma che ci pone davanti a decisioni angoscianti in un quadro geopolitico devastato da conflitti crudeli fino alla barbarie.
Come ci ricordava Federico Rampini su questo giornale, ci sono oggi nel mondo soltanto 11 Paesi che non sono coinvolti in guerre. Nel 1996, contro chi preconizzava la “fine della Storia” dopo la frantumazione dell’Urss, Samuel Huntington scriveva, nel celebre saggio Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale , che “le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro”. Ma neppure questo lungimirante politologo fondatore di Foreign Policy , una delle più rispettate riviste di politica internazionale, avrebbe immaginato nel nuovo millennio un mondo così piagato da guerre, con «l’umanità spaventata da due problemi: la crudeltà e la tortura», come ha detto Papa Francesco.
Nessun pontefice può spingersi a definire giusta una guerra. Perfino un laico come Norberto Bobbio, che parlò di «guerra giusta» per l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam Hussein nel 1990, fu intensamente lacerato dalla sua stessa audacia. Che pure era l’esito di una riflessione storica e geopolitica impeccabile. Finita l’era del bipolarismo, con due superpotenze che si fronteggiavano a tutto campo (dall’ideologico al militare), ma che al tempo stesso garantivano un rigido controllo degli impulsi bellicistici magari con la dottrina solo apparentemente surreale della “reciproca distruzione assicurata” (Mad, secondo l’acronimo inglese, che vuol dire anche “pazzo”, appunto), il mondo era tornato a una logica quasi medievale di una guerra indiscriminata tra bande. Dai conflitti balcanici dei primi anni ‘90 in poi abbiamo assistito a un’escalation di violenza globale di cui le cronache di orrore che ci arrivano ogni giorno dal nord dell’Iraq sono soltanto la punta dell’iceberg.
Se per Jurgen Habermas la causa umanitaria era stata motivo sufficiente per giustificare l’intervento in Serbia, che direbbe oggi di fronte all’eccidio di cristiani da parte dei fanatici sostenitori del Califfato? Dove si spingerebbe la riflessione di Norberto Bobbio sulla «guerra giusta», che gli era stata suggerita dal timore di un nuovo appeasement come l’accordo di Monaco del 1938? Non solo la Storia non è finita, come aveva incautamente affermato Francis Fukuyama dopo il 1989. Ma la Storia ci pone di fronte a dilemmi sempre più angoscianti, a tragedie sempre più inaudite, a orrori sempre crescenti in una moltiplicazione esponenziale dei demoni della guerra, in cui agli “Stati canaglia” di reaganiana memoria si sono sommati gli “individui canaglia”, di cui Bin Laden è stato il progenitore superato in ferocia dai suoi macabri epigoni.
«Gli aggressori ingiusti, come quelli in Iraq, vanno fermati», ha detto papa Francesco. Di più non poteva dire nel solco di una tradizione che da Benedetto XV («l’inutile strage» riferita alla Prima guerra mondiale») in poi non ha mai giustificato apertamente nessuna guerra. Ma con le sue parole il pontefice ha riecheggiato le coraggiose elaborazioni di papa Wojtyla sulla guerra in Iraq, dopo quella nel Kosovo. «Sappiamo bene — disse all’Angelus del 16 marzo 2003 — che non è possibile la pace a ogni costo. Ma sappiamo tutti quanto è grande questa responsabilità». E due mesi prima al corpo diplomatico accreditato in Vaticano aveva avvertito che «la guerra è sempre una sconfitta dell’umanità» e che «non si può fare ricorso alla guerra anche se si tratta di assicurare il bene comune, se non come estrema possibilità e nel rispetto di ben rigorose condizioni» (parole che non piacquero ai pacifisti, alcuni dei quali gli chiesero di non lasciare «scappatoie per gli incisi e i distinguo»).