Come una perversa macchina del tempo, il discorso pubblico sul patrimonio culturale ci ha riportati di peso nei plumbei anni Ottanta. Intervistato dal Sole 24 Ore, il neoministro per i Beni culturali Dario Franceschini non ha trovato di meglio che riesumare l’ormai inascoltabile luogo comune del patrimonio culturale come petrolio d’Italia: “Penso che il ministero della Cultura sia in Italia come quello del petrolio in un paese arabo”. E ancora: “La cultura è il nostro petrolio”. Insomma, il ministro è riuscito ad avverare in un batter d'occhio il profetico anagramma sfornato poche ore prima da Stefano Bartezzaghi: “Dario Franceschini = Dir frasi canoniche”.
Il copyright della canonicissima metafora del petrolio spetta al deputato democristiano Mario Pedini (1918-2003), noto soprattutto per essere uscito nelle liste della P2. Ma a renderla celebre fu Gianni De Michelis, che nel 1985 proclamò che: “Le risorse necessarie alla conservazione non ci saranno finché non ne viene evidenziata la valorizzazione economica”. Partiva allora il tormentone dei giacimenti culturali, al cui prodotto finale ben si attaglia questa analisi di Joseph Stiglitz: “I paesi che abbondano di risorse naturali sono tristemente famosi per le attività di ricerca della rendita. In tali paesi è molto più facile diventare ricchi ottenendo un accesso privilegiato alle risorse che generando ricchezza. Questo è spesso un gioco a somma negativa”. Parole che evocano la privatizzazione dei cosiddetti “servizi aggiuntivi” avviata da Alberto Ronchey su quell'onda, nei primi anni Novanta: un processo che doveva riguardare solo caffetterie e bookshop, e che ha invece finito per fagocitare l'intera vita del sistema museale italiano, inclusa la didattica e la progettazione delle mostre. Per intendersi è come se una scuola pubblica avesse dato in gestione al Cepu non la mensa, ma l’insegnamento stesso. Un’economia di rendita che ha prodotto un oligopolio di concessionari con importanti connessioni politiche (i primi due sono Civita, presieduta da un certo Gianni Letta, ed Electa, di proprietà Berlusconi...), creando pochi posti di lavoro stabili, una produzione culturale di infima qualità (la cosiddetta “valorizzazione”) e non di rado danni materiali al patrimonio: la peggiore delle economie petrolifere.
Ma degli anni Ottanta non abbiamo solo i nostalgici: ne abbiamo ancora i protagonisti. Giuliano Amato ha dichiarato ieri al Corriere che “i beni culturali hanno uno spaventoso bisogno di manager dei Beni culturali, non necessariamente chi ha gestito un McDonald’s riesce a esserlo, ma difficilmente può esserlo un bravo archeologo”. Chissà se il giudice costituzionale Amato sa che le sue parole (oltre a cozzare col fatto che il direttore-presidente del più grande museo del mondo, il Louvre, è proprio un archeologo) cozzano con la costante giurisprudenza della Corte costituzionale, imperniata sul principio che nel governo del patrimonio la “primarietà del valore estetico-culturale non può essere subordinata ad altri valori, ivi compresi quelli economici” (così una sentenza del 1986).
Ma il più anni Ottanta di tutti è Matteo Renzi, il quale, nel suo comizietto al Senato, ha biascicato che “se è vero che con la cultura si mangia, allora dobbiamo aprire i Beni culturali agli investimenti privati”. Una vera telepatia lo unisce a quel Dario Franceschini che solo pochi anni fa definiva “il vicedisastro” e “una delusione continua”: ecco perché lo ha messo a far la guardia al barile del petrolio. Speriamo che ora non gli passi anche un cerino.