Leggendo i giornali dei giorni passati, ho avuto la netta sensazione che Roma fosse stata colpita da un grave calamità: eppure non posso dire di avere avvertito sismi capaci di gravi distruzioni, né ho notizia di una grave inondazione delle zone basse della città, una triste realtà che per secoli ha segnato la vita di quei romani che abitavano Trastevere e il Campo Marzio, prima che venissero eretti i muraglioni del Tevere, una delle prime Grandi Opere del Regno per Roma Capitale (anche allora!) , fermamente voluta da Giuseppe Garibaldi.
Ho faticato un po’ per darmi una spiegazione del fatto che Bertolaso, sottosegretario di Stato alla Protezione Civile, ossia la persona alla quale il Governo di norma affida pezzi di territorio nazionale travolti da gravi emergenze naturali, perché provveda a salvare persone e cose e organizzi soccorsi, sia stato nominato Commissario per l’archeologia, con un simpatico codazzo di consiglieri scientifici di estrazione accademica, che, come sanno fare solo gli italiani, sono corsi in aiuto del vincitore. Mi è sembrato poi di capire che a lui e alla sua comprovata esperienza anche in fatto di situazioni fuori dal normale si intenderebbe affidare un evento, il cui solo riscontro nella storia è la caduta del Muro di Berlino: l’abbattimento del muro che separa il Foro Romano dai Fori Imperiali, il primo da sempre affidato alla tutela della Soprintendenza Archeologica di Roma, e i secondi gestiti invece dalla Soprintendenza del Comune, il tutto in vista di una circostanza epocale, l’unificazione dell’amministrazione dell’immenso patrimonio archeologico del Centro storico di Roma.
Ho celiato un po’ sul senso di ridicolo che suscita in chiunque la chiamata dell’Uomo delle Emergenze Calamitose al solo scopo di permettere che una sola persona gestisca un patrimonio, quello archeologico di Roma, diviso tra Stato ed Ente Locale in forza di una tradizione amministrativa non sempre chiara e non sempre ripartita in base a criteri logici e di efficienza, ma che per un secolo ha bene o male funzionato. I funzionari delle Soprintendenze archeologiche di Stato, di Roma e di Ostia (due sono le Soprintendenze che tutelano il patrimonio della Roma dei Cesari e del suo suburbio), hanno dichiarato di paventare dirizzoni della politica del Ministero per i Beni e le Attività Culturali in senso privatistico e si sono posti in stato di agitazione. E’ difficile non condividere le preoccupazioni dei colleghi delle Soprintendenze soprattutto di fronte ad un ennesima prova della sfiducia degli organi di governo nei confronti di un servizio, quello loro, e di un’amministrazione, che proprio in questi giorni sta celebrando il centenario della prima legge di tutela con una bella e malinconica mostra al Colosseo. Ma, per quanto l’ansia di privatizzare tutto possa agitare i sonni dei ministri del governo Berlusconi (e questo sicuramente accade, come si è potuto chiaramente dedurre dal suggerimento di affidare le università a fondazioni), il principale motivo di preoccupazione di quanti sono pensosi del destino delle nostre antichità consiste non tanto nello spettro di una deriva privatistica, dal momento che sappiamo bene che al privato interessano solo quei pezzi di Stato che conviene sfruttare sul piano economico (e dei beni culturali si sa ce n’è pochini di convenienti), quanto piuttosto nel demone decisionista che rappresenta uno dei chiodi fissi del Cavaliere, come si deduce agevolmente dai suoi continui ricorsi al voto di fiducia, pur in presenza di una maggioranza parlamentare schiacciante.
Siamo di fronte ad una vera e propria bulimia di militarizzazioni e di commissariamenti da parte della destra al governo, che nel campo dei Beni Culturali e in particolare di quelli archeologici non sembra avere limiti: si è commissariato Pompei per motivi di «ordine pubblico», si è già prima ancora di Bertolaso commissariata Roma e Napoli nella persona del direttore generale del Ministero Cecchi con il compito di «coordinare i lavori delle due metropolitane», ora si torna a commissariare Roma per motivi francamente poco comprensibili. In qualche caso, come quello destinato alle metropolitane, la presenza di un commissario può avere una sua utilità, ma non sempre è così. Ad esempio, il prefetto al quale è stato affidato il commissariamento di Pompei si è già prodotto in episodi di danneggiamento del patrimonio archeologico: volendo a tutti i costi approntare un ristorante per gli scavi da allocare nel borbonico Casino delle Aquile, il commissario ha liberato in maniera spicciativa l’edificio di quanto era in esso contenuto, ivi compresi i frammenti di un soffitto dipinto romano che attendevano di essere restaurati. Com’è noto, in campo archeologico la fretta è una cattiva consigliera e quest’ansia di bonapartistico decisionismo ci preoccupa non poco.
E infatti la nomina di tutti questi commissari viene ad aggiungersi ad altri segnali poco incoraggianti, come il trasferimento al Comune di Roma di tutti i monumenti archeologici della città tentato (e non riuscito) con la solita legge finanziaria; ma come dimenticare la nomina del manager della MacDonald a Superdirigente delle Mostre, al quale anche, ohimé, veniva data la potestà di avviare la libera circolazione dei beni archeologici, sognata dagli antiquari e chiodo fisso dell’on. le Carlucci di Forza Italia, che ne ha fatto reiterati disegni di legge, per ora fortunatamente solo disegni e non leggi dello Stato. A ben veder si tratta di tentativi che delineano un progetto di svuotamento del servizio di tutela dello Stato, da affidare a pochissime persone, solo occasionalmente di formazione tecnica, magari molto ossequenti, e di dare finalmente mano libera agli antiquari e alla speculazione edilizia. Amen.