Cesare Chiodi, dalla metà degli anni venti per quarant’anni uno dei più autorevoli protagonisti del dibattito urbanistico milanese, nel 1952, in un articolo comparso su Le vie d’Italia, denunciava l’«offesa al paesaggio» arrecata dalla «sregolata diffusione [e] invadenza delle installazioni pubblicitarie lungo le nostre strade». Pur riconoscendo, da liberale qual era, che in un regime di libertà d’impresa la pubblicità non può essere abolita, rivendicava tuttavia che essa dovesse essere fatta «in forme che non siano di danno agli altri e cioè a quel pubblico al quale in definitiva essa è indirizzata e che tenta di convincere». In mancanza di autocontrollo da parte degli operatori privati, occorreva che l’amministrazione pubblica intervenisse con regolamenti a disciplinare la materia e «a frenare gli eccessi». Libertà e concorrenza di mercato sì, ma a una condizione: che non andasse perso il buon gusto, il senso della misura, in una parola il senso civico.
Cattivo gusto, volgarità, eccessi, inciviltà arrogante sono oggi invece i tratti distintivi con cui sicuramente a Milano si manifesta l’invasione della pubblicità commerciale nello spazio aperto pubblico: lo spazio urbano per eccellenza, la proprietà indivisa che appartiene a tutti i passanti, che interferisce e condiziona la vita degli abitanti, che fa il fascino o la bruttezza dei luoghi. I muri, sia delle case che degli edifici sacri, i tetti, i pali della luce e quelli stradali, persino i platani maestosi della circonvallazione sono stati sviliti a supporti pubblicitari.
Ma non basta. A venir aggrediti e devastati dalla pubblicità hanno iniziato ad essere anche i portici di Corso Vittorio Emanuele. Eppure i portici del Corso sono uno dei rari episodi di urbanità che la Ricostruzione ha saputo donare alla città quasi a risarcimento delle demolizioni che il rifacimento di quella strada ha comportato e a dispetto dei molti «inerti e bolsi fabbricati » (Antonio Cederna) che già prima dei bombardamenti del 1943 avevano corrotto i tratti discreti del suo volto. Le insegne dei negozi sotto i portici fino a poco tempo fa si disponevano discretamente in coerenza con la giacitura e la natura non solo commerciale del corso. Non ne minavano la spazialità imponente, giustificata dall’avere il Duomo e il cuore delle città come punto d’arrivo, né interferivano con il libero passeggio. Nessuna costrizione, nessuna interferenza impediva allo sguardo del passante di procedere rilassato, di guardare o non guardare le vetrine oppure semplicemente di incedere, godendo unicamente del ritmo maestoso dei pilastri e delle colonne. Niente più di tutto ciò oggi.
La spazialità sotto i portici è stata irresponsabilmente deturpata, nell’immagine come nella dimensione, dall’installazione a mezz’aria, perpendicolarmente rispetto alla direzione dell’andare, di una serie invasiva di traversine pubblicitarie, vere e proprie forche caudine con le insegne dei negozi che nella successione ravvicinata di immagini sempre diverse sfiancano lo sguardo e ne violano la libertà. Pensate evidentemente per catturare i passanti e impedire che ci si possa muovere nello spazio per puro piacere, ignorando lo shopping, il risultato è il seguente: l’asse più importante del centro di Milano è ora diventato un banale, caotico suk, e il passeggio sotto i portici una fonte di sofferenza che si è portati a fuggire.