Il presidente della Repubblica non ha accompagnato la promulgazione con un breve messaggio, al modo in cui qualche volta aveva fatto Giorgio Napolitano, così smentendo quanti avevano previsto qualche parola dal Colle sul necessario collegamento dell’Italicum alla riforma costituzionale. La legge che il parlamento ha mandato al presidente si sarebbe prestata a qualche osservazione, visto che è previsto che resti sospesa per oltre un anno (fino al luglio 2016). La Corte costituzionale (con il voto dello stesso Mattarella) anche nella sentenza del 2014 che ha abbattuto il Porcellum aveva ricordato come il paese non può restare un solo giorno senza una legge elettorale applicabile. Eppure il parlamento scrivendone una nuova ha deciso di lasciarla tra parentesi. E non si è preoccupato nemmeno di fare gli interventi necessari a rendere applicabile da subito il Consultellum, cioè il sistema residuato dalla sentenza della Corte (e dalla Corte stessa previsti). La sospensione, infine, è addirittura senza limite per il senato, posto che l’Italicum vale per la sola camera e il sistema è destinato a restare incompleto fino a che non sarà abolito il senato elettivo. Su tutto questo Mattarella non ha ritenuto di precisare nulla.
Il presidente non ha avuto alcuna osservazione da fare neanche sulle più volte sollevate questioni di incostituzionalità della legge, ma in questo secondo caso si tratta di una scelta assai più prevedibile e comprensibile alla luce delle prerogative del capo dello stato. È invece proprio su questo, cioè sul non aver rifiutato del tutto la firma, chiedendo alle camere una nuova deliberazione, che il Movimento 5 Stelle ha preso immediatamente — e pesantemente — ad attaccare il presidente della Repubblica, al quale pure si era rivolto con grandi speranze nell’ultimo intervento alla camera prima del voto finale. Mentre dal predecessore di Mattarella, Giorgio Napolitano, è arrivato un prevedibile messaggio di consenso: «È un raggiungimento importante, era inevitabile approvare l’Italicum che del resto non è arrivato in un mese ma in oltre un anno».
Sono passati in realtà tre mesi scarsi da quando il testo della legge elettorale è stato cristallizzato in senato, immediatamente prima dell’elezione di Mattarella. Nulla è cambiato da allora, il presidente lo conosce bene e dunque non ha senso giudicare «rapida» la sua firma, arrivata il giorno stesso in cui la legge è ufficialmente approdata sulla sua scrivania. Dieci anni fa Carlo Azeglio Ciampi lasciò trascorrere otto giorni prima di promulgare il Porcellum, ci pensò bene, ma la legge fu ugualmente giudicata incostituzionale dalla Consulta, molti anni più tardi.
In attesa dei giudici della Corte Costituzionale davanti ai quali sarà certamente portata (prima o poi) anche questa legge elettorale, si sono fatte sentire le agenzie internazionali di rating. Fitch ha scritto che l’approvazione dell’Italicum «nel medio termine rafforzerà il profilo di credito del paese riducendo i rischi politici che gravano sulle politiche economiche e di bilancio». Mentre secondo il Financial Times con la nuova legge elettorale si mette fine all’«ossessivo sistema di pesi e contrappesi che ha regolarmente prodotto coalizioni di governo instabili» e si «accresce la forza dell’esecutivo». Forse persino troppo: One worry is that it may place too much power in the hands of the executive
di Alfio Mastropaolo
L’esecutivo decide, il parlamento finge di controllare, ma registra, la popolazione si adegua. Non tutta: quella piccola parte che paga, detta le sue condizioni
Non tutta la popolazione si adegua. In realtà c’è una piccola parte che detta all’esecutivo le sue condizioni. Le detta, forte del fatto che è lei a sostenere i mostruosi costi delle campagne di persuasione elettorale. Con l’abolizione del finanziamento pubblico della politica li sosterrà ancor di più. E quindi detterà condizioni ancor più stringenti. Possiamo senza fatica fare ipotesi su quali politiche attuerà l’esecutivo. Di destra o di sinistra che sia, o che si dica, le differenze staranno nei particolari, non irrilevanti, ma sempre particolari. L’essenziale delle scelte politiche lo deciderà chi paga. E poiché, dato lo stato del nostro sistema imprenditoriale, a pagare saranno soprattutto imprese straniere, la pressione internazionale si accentuerà ulteriormente. Si adeguerà il grosso della popolazione, ma si adeguerà l’intero paese. Destinato a diventare sempre più marginale e sottomesso nella divisione del lavoro planetaria.
Abbiamo già avuto qualche avvisaglia del destino che ci aspetta. Ma finora servivano le perentorie imposizioni di Bruxelles e Francoforte. D’ora il poi basterà loro sollevare un sopracciglio. La cupidigia di servilismo è ipertrofica nelle classi dirigenti italiane. Ciò lascia pensare che riusciranno perfino a prevenirle. Resterà qualche piccolo ostacolo, come la Corte costituzionale. Ma non durerà troppo a lungo. I giudici passano, d’ora in poi li sceglierà l’esecutivo, in combutta con un’opposizione che sarà il suo doppio, e i giuristi pronti a mettersi a servizio sono una folla. Le sentenze capricciose e imbarazzanti come l’ultima sulle pensioni potremo scordarcele.
Sarebbe ingenuo attribuire la responsabilità — o il merito — di questa infausta normalizzazione a Renzi. Renzi e la sua leadership sono figlie delle circostanze, lui ha profittato delle circostanze favorevoli e ha operato coerentemente con la sua cultura, ma la normalizzazione arriva da lontano. È dai primi anni 80 che politici e intellettuali perseguono questo disegno con grande determinazione. Con le parole e coi fatti. Qualcuno si dichiara al momento insoddisfatto. In effetti c’è ragione per discutere sulla totale rimozione di ogni garanzia che si verificherà una volta conclusa la parabola delle riforme renziane. Ma si tratta di dettagli. La smania di decisionismo sovrasta questi dettagli ed è molto antica.
Qualcuno di coloro che smaniano da quasi mezzo secolo dirà che la democrazia dei partiti era alla paralisi. Ma a questo argomento si può replicare che quel modello democratico si poteva adeguarlo senza stravolgerlo. E che le dosi massicce di decisionismo già iniettate nel nostro regime democratico hanno prodotto solo effetti disastrosi. Così come non brillanti sono i risultati conseguiti dalle democrazie normali che stanno intorno a noi. Così poco brillanti da metter in dubbio l’idea stessa di normalizzazione. La quale sicuramente conviene ad alcuni — i potentati economico-finanziari — ma non alla maggioranza della popolazione.
Il significato della parola democrazia è incerto. O controverso. Dacché i regimi democratici hanno sostituito quelli liberali è cominciata una guerra per circoscriverlo è che ha avuto successo. Democrazia, si dice, è il suffragio universale, le libere elezioni, la concorrenza tra i partiti. Il resto avanza. Nessun dubbio che queste cose ci stiano. Ma la democrazia e il suffragio universale li si era voluti proprio per cancellare il privilegio delle oligarchie liberali e per finalizzare in maniera più egualitaria l’azione di governo. Ebbene, le democrazie sono state svuotate e siamo tornati indietro di oltre un secolo. In nome della democrazia normale.
Che farà il grosso della popolazione, che è a ben vedere grossissimo, come la crisi ha dimostrato? Un esito certo è la crescita dell’astensione. La frustrazione aumenterà la sfiducia. Gli imbecilli diranno che capita ovunque ed è quindi normale. Cresceranno anche i sentimenti di rivalsa, la cui manifestazione più evidente è il razzismo. Con questo sistema elettorale - la Francia insegna - il rischio che un partito razzista, quantunque minoritario, vinca le elezioni, è piuttosto alto.
Vedremo. C’è però una terza possibilità. Che il grosso della popolazione si ribelli. Che intenda che la democrazia normale serve a fregare ulteriormente i giovani, gli operai, gli impiegati, gli insegnati, se l’è già presa coi proprietari di case e presto se la prenderà con gli avvocati, i professionisti e quant’altri. Il capitalismo finanziario se ne infischia di tutti. Punta a pellegrinare informaticamente per il pianeta, per speculare dove meglio conviene. Bassi consumi per i più, cibo di qualità scadente e consumi di lusso per le vedette dello spettacolo.
Di contro, se questa porzione larghissima di società non cadesse nella trappola della guerra tra poveri e si mettesse insieme, sarebbe un modo di difendersi. Bisogna ridursi come la Grecia per capirlo? È vero che la Grecia non riesce a sottrarsi ai suoi spietati aguzzini. Ma è vero anche che se la Grecia non fosse sola, se la lotta contro la democrazia normale e il capitalismo di rapina si allargasse, la partita si riaprirebbe