Di quanto? 1,5 – 2 %. Siccome la domanda non poteva aumentare giacché la crisi perdurava (vedremo in seguito che molte fabbriche staranno chiudendo, mentre la produzione di automobili crollava del 20 %, dato per noi umani confortante), le oscure centrali economiche imponevano l’aumento dei prezzi di beni primari, specie gli alimentari; non solo la casalinga di Voghera lo notava immediatamente facendo la sua solita spesa. Le cose necessarie e irrinunciabili per la permanenza in vita si acquistano in ogni modo salvo sottoporle a una maggior attenzione riguardo al rapporto qualità prezzo.
Enrico Berlinguer, dimenticato se non vilipeso dai dirigenti succedutigli (p.es. Piero Fassino), fu chiaroveggente a perorare austerità nei consumi, significando vigilanza verso lo spreco. Un bilancio diverso dagli obblighi fissati dalla commissione europea. Un’intesa per fondare una nuova sinistra popolare – non un partito tradizionale – dovrebbe ripartire dal suo pensiero e proporlo accanto a elaborazioni contestatrici del concetto di crescita confusa con lo sviluppo. Carla Ravaioli, l’intransigente studiosa da me ricordata con un articolo nel numero di giugno 2017 del bimestrale «il novarese» («Crescita» ingannevole, guerra dominante), irriducibile accusatrice del capitalismo, spiegava in ogni controversia: crescita concerne le merci e il reddito, sviluppo deve riferirsi a tutti i fattori di umanizzazione delle risorse.
Come non vedere che esistono pensieri e proposte su economia e società diversi dal dogma ricusabile per iniquità? La decrescita o a-crescita, la prospettiva anticonsumistica, socialitaria e umanistica, che non appartiene solo al modello di Serge Latouche, potrebbe assicurare essa la sostenibilità. La sconcertante acquiescenza del centrosinistra di un tempo verso l’ossimoro sviluppo sostenibile era segno di arretratezza culturale, infine politica: si vide con quali conseguenze. Perché non verificare le critiche di un Jared Diamond (Collasso. Come le società scelgono di vivere o di morire, 2005, Einaudi) e di tanti altri studiosi? Sembrano manifesto dei nostri gironi. Perché non liberarsi della sudditanza al liberismo propugnando idee e progetti per una diversa economia, punto di partenza per deviare la rotazione del mondo?
In questo momento (1 febbraio 2019), quasi fossero chiamati a gran voce da noi l’Istat annuncia i numeri della recessione economica giacché il Pil sarebbe diminuito di 0,2 % dopo un precedente calo di 0,1. Come un segnale di pentimento lanciato dalla dea olimpica Ate, personificazione dell’errore, dice agli umani incorrotti: cogliete l’occasione! Se parliamo di cambiamento, locuzione sproloquiata troppo spesso dagli attuali governanti, noi vecchi sappiamo che rispetto a 60-70 anni fa la speranza socialista è diminuita fino a ridursi, con i nuovi potentati al governo, al sogno infantile come dell’idiota dostoevskiano. 70 anni vuol dire 1948, ossia la sconfitta del Fronte popolare. Ma si ricominciò subito con lena. Socialisti e comunisti, con l’apporto di Unità Popolare (che riviveva la Resistenza) vinsero nel 1953 la battaglia contro la «legge truffa». La legge elettorale nazionale d'oggi è assai peggiore, idem le regole (circa venticinquennali) per le elezioni locali che hanno ridotto i Consigli a ritrovo di sudditi dei dittatori sindaci e presidenti, con le giunte imbottite di «chiamati»; da un lato i consiglieri di maggioranza gratificati, dall'altro i frustrati. Eppure allora si risalì la china a partire dai Comuni. La dimensione ricostituita della sinistra costrinse la Democrazia cristiana a trattare, di qui le conquiste sociali che adesso le destre vorrebbero ridiscutere o abolire. Non intendo raccontare come i nonni ai nipotini, preferisco saltare tutti i passaggi di una storia politica che a un certo punto ha prodotto un Berlusconi, poi il saltapicchio di Rignano sull’Arno, e oggi gridare «al fuoco al fuoco», all’incendio che potrebbe ridurre la democrazia in cenere.
In ogni frangente del secolo breve e all’avvio del nuovo millennio ho cercato di conservar memoria delle parole: singoli vocaboli che all’improvviso provenivano da qualcuno o da qualche partito o sindacato o movimento sociale, ridondavano, scadevano nell’abuso, sparivano nel gorgo della miscela linguistica. Torniamo a: cambiamento. Nella mente degli attuali governanti, stando ai fatti e ai propositi dichiarati significa da un lato razzismo al potere, dall’altro riciclaggio di bandiere come stracci social-fascistoidi. Attenzione, anche il bravo Maurizio Landini, nuovo segretario della Cgil, è inciampato nella parola, l’ha esaltata anche lui come obiettivo del movimento sindacale. Vedremo cosa rappresenterà il «cambiato». Spero in una ripresa della battaglia dei perdenti di quest’epoca sul fronte di lotta della classe mondiale ricca e padrona contro la classe operaia e la parte a minor reddito della classe media.
È Henri Lefebvre – finalmente ristampato nel 2014 Il diritto alla città, ed. orig. 1968, nota finale «Parigi 1967 (Centenario del “Capitale”)», Marsilio 1970 – lo studioso francese preparato in diverse discipline, uomo totale simile alla figura ipotizzata nel suo modello di cambiamento, a offrirci il senso più veritiero del termine. Direbbe Marx: i filosofi hanno finora interpretato il mondo in modi diversi; si tratta ora di trasformarlo. Così, per Lefebvre, occuparsi del quotidiano significa cambiarlo, liberandolo dagli elementi che rendono la vita mediocre, soffocante e banale. È dunque necessario aggiungere ai concetti essenziali marxiani: il quotidiano, il tempo e lo spazio sociale, la tendenza verso un modo di produzione orientato dallo stato.
Il diritto alla città secondo Lefebvre non esprime semplicemente la rivendicazione di bisogni essenziali. «Esso si configura piuttosto come una qualità specifica dell'urbano, che comprende l'accesso alle risorse della città e la possibilità di sperimentare una vita alternativa alle logiche e ai processi di industrializzazione e di accumulazione del capitale», così Anna Casaglia nell’introduzione della ristampa odierna. Ugualmente, Cesare Bairati nell’introduzione del I° maggio 1970 scriveva: «Questo diritto […] non può che formularsi come diritto alla vita urbana trasformata dal superamento delle leggi del mercato, del valore di scambio, del denaro, del profitto. I fatti economici – anche se permarranno – non saranno più degli obiettivi ma dei mezzi. I nuovi obiettivi saranno valori intellettuali culturali, affettivi, spirituali […]. L’homo economicus si rivelerà solo una parte dell’homo sapiens». Il luogo di questa possibilità sarà «la società urbana, la città intesa come opera continua dei cittadini, come valore d’uso, tempo e luogo della gioia».
Il cambiamento investe in pieno l’urbanistica: riformarla comporta «una teoria integrale della città e della società urbana, alla definizione della quale» dovranno concorrere «filosofi, urbanisti, scienziati, artisti e proletari». In definitiva, Lefebvre si rivolgeva a tutti noi e noi lo abbiamo ascoltato, ma quale breve tratto della strada indicata abbiamo percorso. Oggi dobbiamo ricominciare approfittando delle crepe che sembrano moltiplicarsi nell’edificio del tardo capitalismo (o sono abbagli?). Il suo messaggio resta il medesimo (dopo mezzo secolo): «Il nostro principale compito politico consiste nell'immaginare e ricostituire un modello di città completamente diverso dall'orribile mostro che il capitale globale e urbano produce incessantemente».
Il soggetto sociale trascurato anzi sprezzato in Italia da tutti i governi e dalle opposizioni (anche nella campagna per le elezioni del 4 marzo 2018) su cui dobbiamo pattuire un impegno quotidiano dell’immaginabile «nostra» sinistra è la scuola, dagli asili nido all'università. Le varie riforme proposte nei decenni scorsi erano false, privatiste, confessionali. Ne cito una (2017) disegnata da Veltroni per cadere in un fallo imperdonabile. Credendo di rendersi gradito a certi poteri locali opportunistici e trafficoni promise 100 (100!) nuove università sparse sul territorio nazionale. Come se non conoscesse l'eccesso di proliferazione clientelare delle sedi. Quando sono piccole quindi prive di strumenti moderni non possono istituire ambiti seri di ricerca, né quadri didattici coerenti a una cultura complessa. Intanto la condizione universitaria dell'esistente è rimasta in fondo alla classifica europea, salvo poche eccellenze bilanciate da diffuse inferiorità. La didattica sopperisce alla mancanza di professori e ricercatori di ruolo con insegnanti improvvisati, assegnatari annuali di «contratti di diritto privato» (economicamente miseri); la ricerca - lo sanno tutti - è in crisi da decenni per mancanza di finanziamenti adeguati. Quando iniziò un’emigrazione di ragazzi e ragazze cólti e atti a studi di alto livello, politici e rettori parvero sorprendersi. Non capivano, non capiscono: poiché non compiono mai indagini serie sulle effettive condizioni della generalità e delle sedi. Eppure ogni membro della classe dirigente potrebbe influire sulla costituzione nel bilancio nazionale di risorse finanziarie per la ricerca e l’educazione universitaria che non li svergognino per la loro esiguità.