Il manifesto, 3 aprile 2015
RIPENSIAMO ALL’IRI
di Valentino Parlato
Ma torniamo all’attuale grave crisi, che né il calo del prezzo del petrolio, né la svalutazione dell’euro hanno frenato. La globalizzazione è cosa troppo grande e complessa per le nostre imprese in difficoltà e che hanno bisogno di soldi, come afferma anche Matteo Renzi. E i soldi (nonostante le difficoltà di bilancio, può darli solo lo Stato, anche attraverso la Banca centrale europea (il bravo Draghi un po’ di soldi li sta dando, ma non basta).
Ci vuole un serio e forte intervento pubblico, mandando al diavolo l’austerità della Troika e di quant’altri. Altrimenti – va detto ad alta voce – anche l’Italia seguirà la Grecia, il cui governo sta facendo una lotta disperata per salvare il paese. La questione di un serio e deciso intervento pubblico va messa all’ordine del giorno.
Quando si parla di serio intervento pubblico il pensiero va subito all’Iri, nato nel 1933 e morto nel 2002. L’Iri (Istituto ricostruzione industriale) salvò l’industria italiana dalla crisi del 1929 e produsse, nel secondo dopoguerra, il famoso «miracolo italiano». Ripensiamo all’Iri e vediamo se si può aprire una seria discussione sull’opportunità o meno di rimetterlo in campo. A tal fine, sono di grande utilità i sei volumi sulla storia dell’Iri pubblicati da Laterza. Ultimamente sono arrivati in libreria il quinto, a cura di Franco Russolillo, con interventi di numerosi autori, e “L’Iri nell’economia italiana” di Pierluigi Ciocca, al quale soprattutto faccio riferimento perché libro costituisce una conclusione di tutto il lavoro di ricerca sull’Iri e, ancora di più, per la sua esperienza nel Direttorio della Banca d”Italia e la sua seria conoscenza dell’economia italiana.
Vengo al capitolo finale del libro di Ciocca, che già nel titolo pone il problema che vorrei porre ai lettori: «Una nuova Iri?» Riporto di seguito le prime parole, per me assai significative, di questo capitolo: «Avrebbe giovato conservare l’Iri? Ovvero, avrebbe giovato — potrebbe giovare una nuova Iri? La risposta è positiva, qualora si spinga l’immaginazione a un controfattuale che includa l’Iri nella sua migliore stagione: l’Iri meccanismo e non strumento, l’Iri dotato di capitale del suo principale azionista e ampiamente partecipato da privati in minoranza, l’Iri compreso dalla politica e accettato nella sua autonomia, l’Iri capace di contribuire allo sviluppo industriale del Mezzogiorno, l’Iri impegnato nelle attività di R&S, fonte di innovazione e progresso tecnico diffusi nella filiera del sistema produttivo».
Su queste parole di Pierluigi Ciocca vorrei concludere. La situazione è brutta. Si dovrebbe provare a mettere in campo l’Iri. Vorrei aggiungere che converrebbe anche a Matteo Renzi, ma sarebbe un progetto troppo complesso per le sue semplificazioni di breve periodo. Vogliamo discuterne
FINANZCAPITALISMO ALLA PROVERA
di Enrico Carucci
Globalizzazione. Le strategie finanziarie del manager italiano e le prospettive della vendita ai cinesi
A pochi giorni dall’annuncio dell’acquisto di AnsaldoSts e AnsaldoBreda da parte di Hitachi, un altro pezzo importante dell’industria Italiana passa in mani straniere: la Pirelli ha infatti reso noto l’accordo per il passaggio di proprietà al colosso cinese ChemChina. Si tratta dell’ennesima acquisizione di aziende italiane da parte di gruppi stranieri, un fenomeno che investe la totalità del sistema industriale, dal tessuto di piccole medie imprese ai grandi marchi. Parmalat, pastificio Luciano Garofalo, Pernigotti, Ducati, Indesit, Loro Piana, Krizia: solo qualche esempio, preso in ordine sparso ma non a caso, per mostrare come tutti i settori chiave dell’economia italiana ne siano interessati, dall’agroalimentare alla meccanica ai prodotti di lusso.
Se si presta fede al mantra del «è necessario attirare capitali stranieri», si potrebbe concludere che ci troviamo di fronte a un fenomeno positivo: il nostro Paese è in grado di attrarre finanziatori stranieri. Bene, siamo competitivi e ciò ci permetterà di riprendere il sentiero della crescita sostenuta. Altre voci, più scettiche, vedono in queste acquisizioni l’impoverimento e lo smembramento del tessuto industriale italiano.
Pur non entrando in questo dibattito, ci limitiamo a far notare che il passaggio di proprietà (o della maggioranza delle azioni) a una società in mano straniera ha delle implicazioni innegabili per quanto riguarda i flussi finanziari a livello paese. A un’entrata una tantum nel momenti della cessione, fa seguito infatti un’uscita continuativa di flussi finanziari tramite i profitti rimpatriati.
La differenza tra investimenti e acquisizioni è cruciale. Non si sta parlando di flussi di denaro che entrano per aumentare la capacità produttiva della nostra economia, bensì di un cambio di proprietà. Inoltre, nell’ipotetico caso di un governo che decidesse di riprendere a fare politica industriale, confrontarsi con partner stranieri o italiani non sarebbe chiaramente la stessa cosa in termini di agenda e priorità.
Chiaramente la nuova leadership cinese presenta della potenzialità da non sottovalutare, come la possibilità di allargare significativamente il mercato di Pirelli, aprendolo ai paesi asiatici. La questione chiave, tuttavia, sarà capire che parte di questi benefici rimarrà in Italia.
All’annuncio di Pirelli sono seguite alcune (poche in realtà) critiche sulla pressoché totale assenza di un’adeguata politica industriale da parte del governo, una considerazione fatta tra gli altri non solo dalla leader della Cgil Susanna Camusso, ma anche da una figura non esattamente vicina ai sindacati come Cesare Romiti. Questa critica è stata liquidata come «nazionalismo di maniera» da Marco Tronchetti Provera, il Presidente nonché amministratore delegato della Pirelli, tra le altre cose uno dei manager più pagati di Italia.
Per capire la figura di Provera, è utile far riferimento a un termine in voga nella teoria economica: la finanziarizzazione dell’economia. Si tratta di un concetto non semplice da spiegare, che ha confini poco chiari anche all’interno del dibattito accademico. In poche battute, è un processo che porta la sfera finanziaria dell’economia a prevalere su quella reale: la finanza, la borsa, la speculazione che prevalgono sulla industria, l’imprenditoria e la produzione. Da un punto di vista manageriale, ci si focalizza più sul valore di borsa delle azioni che sulle performance commerciali dell’azienda. Questo significa avere un orizzonte temporale assai limitato. La finanza, è risaputo, corre molto, ha tempi brevi e poco si adatta a complessi progetti imprenditoriali di lungo respiro.
La linea manageriale di Provera si è mossa in questo solco. Provera controlla la Pirelli tramite un sistema piramidale (con del capitale crea una società che si indebiterà e potrà comprare una società più grande che si indebiterà, potendo a sua volta comprare una società più grande e così via) e ha concentrato tutti i suoi sforzi sul valore di Borsa dell’azienda, indubbiamente con qualche successo.
Le azioni di Pirelli hanno incrementato considerevolmente il loro valore da quando ne ha assunto la Presidenza. Il lato imprenditoriale è stato però messo in secondo piano. Gli investimenti sono diminuiti, cosi come le spese in ricerca. Ciò, unito alla compressione salariale, può aver favorito la reddittività di Pirelli nel breve termine ed aver quindi facilitato la distribuzione di dividendi, contribuendo a determinare il valore di borsa di un titolo, ma senza coniugarsi a una concorrenza industriale in mercati sempre più aperti e competitivi.
Perché le aziende e l’economia italiana possano fare fronte alle sfide e alle opportunità dell’economia globale e dei mercati emergenti, è fondamentale avere una classe imprenditoriale capace e lungimirante, nonché una finanza paziente che sia funzionale all’impresa. E ci vorrebbero governi capaci di fare vera politica industriale.
Le scatole cinesi all’italiana, il capitalismo da salotto, una finanza basata sulle relazioni, i Tronchetti Provera non sono adatti ai mercati mondiali, perché non ne sono all’altezza. A vederli decidere di sottrarsi ai mercati globalizzati e vendere un pezzo importante dell’industria italiana dopo essersi arricchiti spropositatamente, verrebbe da pensare a Schettino e urlare «torni a bordo, cazzo». Ma probabilmente è meglio di no.
È meglio che i manager di corto respiro, quelli che spolpano le aziende — si veda anche il caso Telecom — e che andavano di moda tra i venti e i trenta anni fa negli Stati Uniti (si pensi al Gordon Gekko di Wall Street di Oliver Stone), si levino di torno. In un paese con una lunga storia di produzione manifatturiera come il nostro, bisognerebbe che i bonus dei manager non fossero pagati sulla base di obiettivi finanziari, come nel caso di Marchionne, ma sulle performance industriali e gli obiettivi di lungo periodo.
In assenza di una classe imprenditoriale all’altezza, ci si dovrebbe poter rivolgere a un governo che intervenga tramite politiche industriali. Ma avrebbe senso aspettarsi ciò da un esecutivo che si rifà a strategie che erano in auge in Inghilterra vent’anni fa.