«L'acquisto di Chrysler. Preoccupazione per gli stabilimenti italiani del Lingotto dopo l’acquisizione del 100% dell'azienda Usa. I sindacati: «Marchionne ci dica se investirà». Ma alla Borsa l’operazione piace: i titoli volano». Il
manifesto, 2 gennaio 2014
così Sergio Marchionne, il manager «dei due mondi», è riuscito a incassare un altro risultato: ha riunito i due mondi in uno, adesso la Chrysler è tutta di Fiat e praticamente le due società (mancano ovviamente tempi e passaggi tecnici) si avviano a diventare una unica maxi-azienda, un colosso mondiale tale da poter sopravvivere alla competizione con gli altri giganti dell’auto. D’altronde già nel 2010, all’atto della presentazione dell’ambiziosissimo «Piano Fabbrica Italia», poi spazzato via dalla crisi internazionale, Marchionne lo aveva detto: Fiat potrà sopravvivere solo in una grande alleanza trans-nazionale, che la faccia entrare nel ristretto gruppo di imprese (da contare sul dito di una mano) che sopravviveranno. Grazie all’abbattimento dei costi, grazie a economie di scala su milioni di vetture prodotte, grazie alla flessibilità e insieme alla potenza finanziaria che solo un big può permettersi. Il resto è nulla.
Innanzitutto la Borsa: perché prima ancora che allo stesso amministratore delegato del gruppo e alla famiglia Agnelli/Elkann – che hanno parlato di avvenimento «storico» – ieri l’acquisto è piaciuto soprattutto agli investitori di Piazzaffari. Il titolo Fiat già in apertura di contrattazione è schizzato in alto, per entrare con una quotazione del +12,6%; la chiusura è stata ai livelli del +16,4% e uno scambio di ben il 6,4% del capitale.
Evidentemente i mercati credono nell’operazione: e non solo nel nuovo soggetto che nasce, ma anche nell’«acquisitore» a monte, ovvero la Exor, la holding-cassaforte degli Agnelli, che si avvicina tra l’altro sempre di più a spostare il suo baricentro finanziario e di mercato dalla piazza di Milano a Wall Street. Gli analisti infatti prefigurano un futuro sempre più «a stelle e strisce» non solo per Chrysler-Fiat (capitolo che apre nodi forse dolorosi, almeno per l’Italia, di cui parleremo), ma anche per Exor: che ieri è stata il secondo miglior titolo, dopo Fiat, segnando rialzi oltre il 5%.
Ma, ancora più importante, il giudizio degli ambienti finanziari americani, visto che il titolo di Chrysler-Fiat andrà quasi certamente già entro la fine di quest’anno a istituire la propria piazza principale a Wall Street, lasciando Piazzaffari come mercato secondario.Secondo il Wall Street Journal, il prezzo dei 3,6 miliardi pagato da Fiat per acquisire il 41,5% delle azioni Chrysler ancora in mano a Veba (tutte le altre erano già a Torino), è «molto conveniente per Fiat, migliore delle attese». Gli analisti avevano parlato infatti di un valore ben più alto, tra i 4,2 miliardi e i 5 miliardi di dollari, e tra l’altro il metodo di pagamento scelto (di cui 1,75 miliardi cash e 1,9 miliardi sotto forma di dividendo straordinario da parte di Chrysler a Veba) permettono a Fiat di acquistare senza aumenti di capitale, così come un aumento non è servito a Exor.
Operazione finanziaria riuscitissima, quindi, ma adesso si apre una prateria di possibilità per le scelte industriali: e i sindacati italiani, che ieri hanno ripetuto in coro il mantra «adesso Fiat investa in Italia», dietro questa frase piuttosto scontata celano a stento forti preoccupazioni. Innanzitutto la sede: perché se è ormai praticamente certo che il gruppo italo americano si sposterà (finanziariamente) alla borsa di New York, pare altrettanto attendibile (anche se ancora non se ne parla ufficialmente) che gli uffici centrali, dalla sede legale, al «cervello» della multinazionale, faranno anche loro le valigie: spostandosi da Torino a Detroit. Altri ancora parlano di sede legale in Olanda (come è già avvenuto con Cnh Fiat-Industrial), perché molto vantaggiosa sul piano fiscale, e sede operativa negli Usa. Ma insomma, la gloriosa e storica città del Lingotto, che ospitò fin dal lontano 1899 la creatura di Giovanni Agnelli, pare ormai fuori gioco.
E poi, a cascata, tema che riguarda più da vicino gli operai, gli stabilimenti produttivi. Fiat continuerà a investire in Italia, o via via si disimpegnerà sempre di più? Il coro sindacale è unanime: ora il nostro Paese, che ha tanto pagato per arrivare fino a questa «vittoria» d’oltreoceano, deve incassare le cambiali: Raffaele Bonanni, della Cisl, rivendica la linea seguita negli ultimi anni (insieme alla Uil) di sostegno a Marchionne, dicendo che l’acquisto di Chrysler «è anche merito dei sindacati italiani». Luigi Angeletti chiede investimenti. E Susanna Camusso, della Cgil, insiste: «Fiat dica cosa intende fare nel nostro Paese: auspichiamo che la direzione strategica e la progettazione restino italiane, mantenendo una presenza qualificata in Italia». La Fiom, con Michele De Palma, chiede «la convocazione di un tavolo, con cui il governo chieda garanzie per tutti gli stabilimenti italiani», a partire da Mirafiori e Cassino, quelli giudicati più in bilico.
Il futuro industriale Fiat, almeno negli scenari circolanti ieri, dovrebbe basarsi sul rilancio dell’Alfa Romeo e sul segmento lusso, così come è avvenuto finora per la 500 negli Usa e il rispolvero di Maserati. Sarebbero proprio Cassino e Mirafiori a usufruire dei nuovi modelli Alfa (si parla di una nuova Giulietta, di un’ammiraglia di un suv) e Maserati (con un fuoristrada). Pomigliano pare per ora «condannata» alla sola Panda, Melfi alla Punto, e ai mini suv Fiat e Jeep