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Eleonora Forenza
#feminiStrike, una marea si aggira per l’Europa
9 Marzo 2017
Donna
«Lotto marzo. Una giornata di lotta senza precedenti, di ridefinizione stessa della forma-sciopero. Chissà se al New York Times hanno già annoverato questo movimento femminista globale tra le potenze mondiali, come fecero per il movimento dei movimenti». il manifesto, 9 marzo 2017 (c.m.c.)

«New York Times hanno già annoverato questo movimento femminista globale tra le potenze mondiali, come fecero per il movimento dei movimenti». il manifesto,

Scoccata la mezzanotte, nei social già era chiaro che questo #lottomarzo sarebbe stato anche in Italia una irruzione straordinaria di lotta e gioia della politica, di passione com/movente.

Il feminiStrike globale, che ha reso questo 8 marzo una giornata di lotta senza precedenti, di ridefinizione stessa della forma-sciopero, riafferma la potenza della marea partita dalle donne argentine di Ni una menos. Chissà se al New York Times hanno già annoverato questo movimento femminista globale tra le potenze mondiali, come fecero per il movimento dei movimenti.

Credo che il movimento dei movimenti delle donne oggi sia la forza politica che può agire la rottura in e con questo presente, affermandosi come soggetto radicalmente altro dal dominio capitalistico e patriarcale: ha preso corpo in Brasile nella lotta delle lavoratrici domestiche, negli Usa contro il sessismo di Trump, in Polonia contro il tentativo di rendere reato penale l’aborto, fino allo sciopero globale, sociale e politico, delle donne convocato per questo 8 marzo in più di 40 paesi.

Ieri anche dentro e fuori il Parlamento europeo a Bruxelles dibattiti, flash-mob e interruzione dei lavori. Una marea ha invaso tantissime città europee e non sono elencabili le tantissime manifestazioni in Italia: più di trentamila persone solo a Roma.

In Italia la marea aveva già portato in piazza il 26 più di 200.000 persone, dato vita ai tavoli di Roma e Bologna, al piano femminista contro la violenza e agli 8 punti per l’8 marzo, con la proclamazione dello sciopero femminista e dai generi, dal lavoro produttivo e riproduttivo. Una marea che sta cambiando ciascuna di noi, che ha fatto irruzione nella quasi totale assenza di conflitto sociale, connettendo lotte, desideri, bisogni, nel vuoto di parola, di senso e consenso di una politica ancora molto patriarcale, nei contenuti e nelle forme, anche a sinistra.

Una gioia potente, che può rivoluzionare lo spazio europeo e fare la differenza.

La straordinaria forza di questo movimento è anche nella capacità di leggere criticamente il presente, mostrando l’intersezione fra diverse forme di disciplinamento e dispositivi governamentali (come quelli neoliberisti, patriarcali, eteronormativi, razzisti) nell’estrarre valore dall’intera vita. Ed è proprio la femminilizzazione come messa al lavoro dell’intera vita di donne e uomini agita dal dominio neoliberista che ha reso oggi evidente come da una posizione femminista si possano produrre pensiero e pratiche politiche per tutte/i: soggetti-non-donna, queer, trans che si riconoscono nelle differenze e nella posizione femminista.

Il reddito di autodeterminazione, che ha una lunga genealogia femminista, è una proposta in cui si riconoscono oggi donne e uomini interamente «messi a valore» dalla femminilizzazione del lavoro neoliberista. Reddito di autodeterminazione come reddito di base incondizionato, reddito che reclamiamo come riconoscimento della vita attiva produttiva e riproduttiva e del diritto all’esistenza. Una «utopia concreta» che racconta anche quanto sia indispensabile il pensiero politico femminista per rivoluzionare lo spazio europeo e ripensare l’idea stessa di cittadinanza, oltre il familismo e il lavorismo che la connotano negli Stati nazione, oltre i dispositivi di inclusione ed esclusione, nello «smascheramento» della qualità borghese e neutro-maschile del «cittadino» oggi rimossa nei tanti cittadinismi di ritorno.

Una proposta che ci rinvia intera la necessità di rompere e rivoluzionare questa Ue fondata sul neoliberismo, che stenta perfino a riconoscere il reddito come strumento di redistribuzione. Certo, se partiamo dal disastro italiano, rappresentano passi in avanti anche la risoluzione del Pe del 2010 sul reddito minimo (equivalente almeno al 60% del reddito mediano) come misura di contrasto alla povertà, o la risoluzione approvata lo scorso gennaio sul «social pillar» in cui si «invita la Commissione e gli Stati membri a valutare i regimi di reddito minimo nell’Ue, anche esaminando se tali regimi consentano alle famiglie di soddisfare le loro esigenze». Ma è evidente che non solo il riconoscimento di reddito per l’autodeterminazione, ma perfino di un reddito minimo è incompatibile con l’attuale architettura Ue disegnata dai Trattati e dai patti di stabilità.

Peraltro, i lavori e gli studi prodotti dalla Commissione Femm del Pe così come dal Gendermainstraming Network (ogni Commissione del Pe ha una responsabile del gender impact dei suoi lavori) dimostrano come l’Ue sia lontana non solo da essere uno spazio di autodeterminazione per donne e uomini, ma perfino da una reale gender-equality. Come riporta Differences in men’s and women’s work (studio del 2016 per Femm), il gender pay gap medio dell’Ue si attesta intorno al 16.4%, ma il gender overall earnings gap arriva al 41,1%. Le donne sono la gran parte del part-time non volontario e il gender-pension gap è al 40,2%.

La disuguaglianza economica continua ad essere una forma di violenza diffusa nello spazio europeo. Peraltro nella Ue in cui una donna su quattro ha subito violenza fisica, 14 SM su 28 (ormai 27) non hanno ancora ratificato la Convenzione di Istanbul.

Per uno spazio europeo libero da ogni forma violenza contro le donne occorre davvero che la marea femminista si aggiri per l’Europa.

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