Nel PD c'è qualcuno cui non piace «il partito padronale». E se ne va dal governo.
Il manifesto, 4 gennaio 2014
Matteo Renzi aveva appena finito di ripetere le solite rassicurazioni — «non sono io che metto in difficoltà il governo» — quando gli è venuto fuori un gesto arrogante che offre l’occasione a un suo avversario interno di attaccarlo in contropiede. «Fassina chi?», ha fatto finta di non capire in conferenza stampa il segretario. E Stefano Fassina qualche ora dopo si è dimesso. Ma è stata quella del viceministro all’economia una mossa politica studiata, preparata con un paio di interviste nell’ultima settimana. Che serve a caricare su Renzi la responsabilità dell’esecutivo. Può farlo cadere, se vuole. O sostituire i ministri del Pd, se ha voglia di imbarcarsi in un complicato rimpasto.
Anzi, a questo punto dovrà probabilmente farlo. E di certo ha messo il governo in difficoltà. Stefano Fassina si dimette, e deve precisare «irrevocabilmente» perché nell’ottobre scorso era tornato indietro da un identico annuncio dovuto a un dissenso sulla legge di stabilità, poi Letta lo aveva convinto a restare. Il viceministro riesce adesso a scaricare sul gesto sgarbato di Renzi una sua già matura scelta di rottura, e prova a raddoppiarne l’effetto. Ancora ieri mattina dai giornali Fassina insisteva per un rimpasto, mettendo il suo mandato «a disposizione» di Letta e Renzi. «La squadra di governo è espressione di un Pd archiviato», spiegava da «reduce» della sconfitta corrente bersaniana. Renzi non lo degnava di una risposta, se non alla fine con quel «chi?» irridente che in passato il sindaco di Firenze aveva subito da D’Alema. Fassina non si lascia sfuggire l’occasione. «Le parole di Renzi su di me confermano la valutazione politica che ho proposto in questi giorni: la delegazione del Pd al governo va resa coerente con il risultato congressuale; è responsabilità di Renzi proporre uomini e donne sulla sua linea», dice. E poi aggiunge la formula classica del bravo dirigente: «Non c’è nulla di personale, è una questione politica».
Politica, ma anche un po’ personale era di certo la posizione scomoda nella quale si era venuto a trovare Fassina, responsabile di quelle politiche economiche che Renzi e i renziani non hanno smesso un minuto di bombardare dall’esterno, prima e dopo le primarie. Nel giorno dell’addio, il viceministro si toglie lo sfizio di stuzzicare il collega Del Rio, unico ministro di lunga militanza renziana. È di certo lui quell’«autorevole collega che si arrampica sugli specchi» di fronte alle critiche quotidiane del segretario Pd.
Ma consegnate le dimissioni a Letta, Fassina riceve pubblica e immediata solidarietà solo dall’esterno del Pd. Gianni Cuperlo solo in serata esprime «dispiacere per l’episodio che ha generato le dimissioni», e chiede a Renzi «rispetto per le persone». Matteo Orfini, esponente di quella corrente dei giovani turchi che sta cercando un’interlocuzione con il neo segretario, corrente della quale Fassina non fa parte, bacchetta l’uno e l’altro. Renzi per «gli atteggiamenti guasconeschi». Fassina perché avrebbe dovuto reagire «impegnandosi a fare di più». La nuova maggioranza renziana avvolge l’episodio nel gelo. Il portavoce della segreteria Guerini liquida la vicenda come un disturbo dovuto a motivi personali: «Non c’è motivo di fare polemiche, ma di lavorare, e molto. Dispiace che Fassina esprima in questo modo il suo disagio riguardo alla sua presenza nel governo». Il renziano Marcucci parla di «dimissioni per futili motivi»; altri di «pantomima». Renzi continua a non accorgersi di Fassina. A dimissioni già date, scrive su twitter di sentirsi «molto contento» per l’esito della prima segreteria a Firenze. E aggiunge l’hashtag #lavoltabuona che sarebbe troppo maligno collegare all’addio del viceministro.
Anche perché quell’incarico all’economia andrà comunque affidato, a meno di non considerare il governo già in esaurimento. E dunque si aprirà quel rimpasto che tanti problemi potrebbe creare sia a Letta che a Renzi, e forse soprattutto a Renzi che non potrebbe più continuare con un piede dentro e l’altro fuori. C’è al governo per esempio il ministro Zanonato, che è parimenti dell’area che fu di Bersani. E c’è la ministra Cancellieri: Renzi la voleva fuori, non troppo tempo fa.