Chi comanda l'Italia oggi non è né re né principe, né duca né marchese, e neppure barone: è solo un baro. Ecco perchè Il manifesto, 1 ottobre 2014
Mercoledì 24 settembre il direttore del «giornale della borghesia italiana» ha voluto informarci che Renzi quella borghesia non la rappresenta. La notizia, al di là di quello che non esplicita e potrebbe preannunciare (vedi
Vincenzo Comito sul manifesto del 26 settembre) solleva comunque una questione di sicura rilevanza. Quella di chi, di cosa rappresenti Renzi. Mi riferisco, prima ancora che a quella parlamentare, a quella rappresentanza che si acquisisce mediante l’attività di governo e risultante come consenso all’indirizzo e al prodotto dell’azione governativa.
La risposta non può essere certo data da Renzi maestro indiscutibile di comunicazione e manipolazione politica. Può risultare solo da un’analisi obiettiva dell’orientamento espresso nei suoi confronti delle forze organizzate ed istituzionalizzate. Abbiamo saputo che la borghesia italiana della finanza e dell’industria non sente che i suoi interessi siano rappresentati nell’azione del governo.
All’
editoriale di Ferruccio de Bortoli si sono aggiunti i giudizi espressi da autorevoli esponenti dell’imprenditoria italiana (De Benedetti, Della Valle). La Confindustria, da parte sua, non sembra particolarmente entusiasta di questo governo pur se arruolatasi come portabandiera degli abrogatori dell’articolo 18.
Notizie di tal tipo dovrebbero allietarci se, per converso, ad essere rappresentati nell’azione di governo fossero gli interessi dei lavoratori. Il che proprio non è. A dimostrarlo è l’opposizione dei sindacati, iniziata in contemporanea alla costituzione del governo Renzi e provocata dallo stesso Renzi con le dichiarazioni sprezzanti e programmaticamente antisindacali che pronunziò. Opposizione divenuta via via più acuta e oggi durissima con la mobilitazione della Cgil e della Fiom, e non solo, a difesa almeno di quel che resta dell’articolo 18 della Legge 300 del 1970, mobilitazione che potrebbe condurre a uno sciopero generale. Alla critica al governo si è aggiunta anche la Cei che chiede a Renzi di «ridisegnare l’agenda politica» e di non ridursi agli slogan.
Non è poco. Perché non è da niente la sottoposizione, l’asservimento, il ricatto continuato cui una lavoratrice o un lavoratore sarebbe assoggettato dalla decisione di Renzi di abrogare l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Su quale rappresentanza dunque può poggiare Renzi ? Se non gli interessi di quanti dimostrano di avergliela revocata, Renzi rivendicherebbe quella del 40,81 per cento dei cittadini italiani. Una rappresentanza che invece non ha. Non ha per almeno tre ragioni.
Perché questa rappresentanza del 41 per cento è quella ottenuta per l’elezione del parlamento europeo in sede, in forma e ai fini che nulla hanno a che fare con l’indirizzo politico di governo, con la maggioranza parlamentare, con la legislazione italiana e con i diritti dei cittadini della Repubblica. Una maggioranza che non lo legittima affatto in sede nazionale. L’irrilevanza di quel voto per il governo la aveva affermata più volte lui stesso prima dei risultati elettorali.
Una maggioranza che tanto meno potrebbe rivendicare nel caso specifico della modifica dell’articolo 18. È del tutto evidente che a comporre quel 41 per cento dei votanti per il Parlamento europeo abbia contribuito, in misura determinante e maggioritaria, il 25 per cento degli elettori che votarono per il Pd nelle elezioni politiche del 2013. Sottraendo al 41 per cento il 25 dei voti che ottenne il Pd nel 2013, la quota rappresentativa di Renzi si riduce al 16 per cento. Se ne deve dedurre che Renzi dispone perciò solo di questa quota di consenso elettorale. È quindi del tutto evidente che, con la divisione determinatasi nel Pd sulla questione dell’articolo 18, a rappresentare gli elettori del Pd sia la minoranza, non la maggioranza attuale della Direzione di quel partito. Quella minoranza che, tra l’altro, ottenne proprio quei voti che consentono a Renzi di governare.
C’è una terza ragione, prioritaria, fondamentale che non andrebbe mai dimenticata, elusa, disconosciuta. La composizione delle due camere del Parlamento italiano è illegittima. Lo ha riconosciuto e sancito la Corte costituzionale come tutti sanno. In un paese civile una sentenza del genere avrebbe comportato almeno lo scioglimento delle due Camere. In Italia dovrebbe impedire o almeno condizionare presidente del consiglio, governo, parlamento.
Ma l’Italia è il Paese in cui con 1.895.332 voti su 2.814. 881 alle primarie di un partito, voti quanto mai occasionali e media-dipendenti, si ottiene la leadership di tale partito che, con 8.646.343 voti su 35.270.096 votanti, quindi col 25,42 per cento dei consensi alle elezioni politiche, conquista la maggioranza dei seggi (assoluta alla Camera, relativa al Senato).
Un sistema quindi delle falsificazioni progressive. E che, pur dopo la declaratoria della incostituzionalità del meccanismo che costituisce la rappresentanza e la maggioranza che ne deriva, permette che, acquisita la leadership di partito, si possa disporre del potere di far strame della Costituzione, dei principi della democrazia, dei diritti dei cittadini.