Caro Paolo, si scrivo ciò che avrei detto venerdì scorso, se avessi chiesto la parola. Naturalmente, poiché scrivo oggi e non parlo ieri, terrò conto di alcune cose che sono state dette.
Mi sembra che il tema dell’incontro indichi la volontà di costruire un nuovo progetto politico per la città. Ora nessun progetto politico riesce a durare se non si basa su un’analisi, il più possibile seria, del presente e del passato più recente. È a questo che siano allora in primo luogo chiamati.
Un atteggiamento che guardi appena al di là del contingente ci conduce subito a comprendere che ciò che oggi è in gioco non è una valutazione sulla maggiore o minore adeguatezza dell’operato del sindaco Costa e della sua giunta. Se ci limitassimo a questo: (1) non comprenderemmo le ragioni dell’attuale crisi, (2) non andremmo lontano nella definizione di un progetto politico.
La mia opinione è che, al di là della superficie delle differenze di stile e di spessore (ma non possiamo pretendere che i sindaci siano sempre dei geni), e forse anche di consapevolezza dell’interesse generale, ci sia una sostanziale continuità di strategia e di linea politica tra le diverse giunte che si sono succedute dall’inizio degli anni Novanta. Paolo Costa si limita a proseguire (naturalmente con il suo stile) il lavoro impostato da Massimo Cacciari. Per meglio dire, colloca le sue scelte in coerenza con le linee manifestatesi nel corso dei governi precedenti.
In termini molto sintetici vorrei ricordare alcuni eventi in relazione a temi che considero nodali per la città.
Una politica del turismo che lo renda compatibile con la città (e quindi capace di contribuire alla ricchezza dei suoi cittadini ma non distruttivo della risorsa di cui si nutre) richiede un’azione articolata su due versanti.
Da una parte (come aveva visto lucidamente il prof. Paolo Costa quando non era ancora sindaco) una rigorosa politica di “razionamento programmato dell’offerta turistica”. Si tratta di quella linea che Costa abbozzò in occasione della discussione sull’Expo, e che Luigi Scano ha sviluppato in alcuni suoi ignorati scritti. Una linea certo difficile, non foss’altro perché controcorrente, e per la quale il Comune ha pochi poteri diretti (e quelli indiretti sono proporzionali all’autorevolezza che il governo cittadino sa dispiegare).
Dall’altra parte, una politica altrettanto rigorosa di controllo delle destinazioni d’uso e dei loro cambiamenti. Linea certamente più facile della precedente, poiché già praticata con successo dalle precedenti giunte (ricordi come Antonio Casellati e Maurizio Cecconi riuscirono a impedire che si aprisse anche un solo fastfood a Venezia?), e perché dotata di strumenti abbastanza efficaci nelle competenze proprie della politica urbanistica ed edilizia comunale.
Annoto di passaggio che la linea espressa in quelle due direzioni di marcia era particolarmente coerente con il messaggio trasmesso da Cacciari con le sue proposte per la città, sulla cui base maturò la sua candidatura a Sindaco. Sottolineo invece con amarezza che, fin dai suoi primi atti, la giunta Cacciari si comportò completamente all’opposto. Non fece nulla per la programmazione del turismo, e invece si affannò a smantellare tutti gli strumenti che avrebbero consentire di controllare le destinazioni d’uso: dalla revoca della delibera comunale di recepimento della Legge Mammì sui vincoli alle tipologie di attività commerciali e assimilabili nei centri storici, al piano regolatore della città storica che fu profondamente snaturato proprio sul punto del controllo delle destinazioni d’uso. E addirittura, nella sua ultima fase, avallò la proposta dell’attuale sindaco della sublagunare da Tessera a Murano e all’Arsenale, utile solo ad aumentare l’afflusso del turismo “mordi e fuggi”.
Linea costante delle forze politiche della sinistra e del centro è stata a Venezia, dagli anni Settanta all’inizio degli anni Novanta, quella di privilegiare l’intervento pubblico in particolare nel campo delle nuove costruzioni. Comunisti, socialisti e democristiani (non parlo dei partiti minori, anch’essi in vario modo concordi) hanno rigorosamente tenuto fede all’impegno ”neppure una nuova costruzione per abitazioni a Venezia che non sia pubblica e destinata ai veneziani”. Area ex Saffa, Area ex Trevisan, Sacca Fisola, Mazzorbo, sono i prodotti positivi di questa linea. E il recupero del Mulino Stucky non partì solo perché non si riuscì a mettersi d’accordo con la proprietà sui vincoli (adopero ancora questo brutto termine!) agli edifici residenziali,
Sarebbe interessante un’analisi degli effetti della politica successiva: chi sia andato ad abitare nelle case costruite da privati con finanziamenti pubblici, con quali prezzi per gli inquilini, con quali vantaggi per la proprietà. Certo è che il vero e proprio cambio di linea (rispetto a una linea ventennale) che avvenne con il “Progetto Giudecca” e con gli altri atti della prima giunta Cacciari, non fu vagliato da nessuna discussione tra le forze politiche e nella città.
C’è da aggiungere che fu, peraltro, un cambio di linea pienamente coerente con quello, sintetizzato nello slogan “meno Stato e più mercato”, che si manifestava in quegli anni nella sinistra a livello nazionale. Senza tener conto della peculiarità della situazione veneziana che aveva fatto sì che repubblicani, democristiani e liberali, certo non ostili al mercato, avevano promosso e condiviso la linea che ho sopra ricordato.
Questo è il terreno sul quale mi sembra che le giunte postcomuniste si siano comportate meglio, esprimendo resistenze ragionevoli ed efficaci ai continui tentativi di forsennata accelerazione dei fautori del MoSE a tutti i costi.
La debolezza del comportamento del governo cittadino sta nel fatto che la resistenza agli “arrabbiati” del MoSE è stata avvertita dalla cittadinanza e dall’opinione pubblica nazionale e internazionale molto più come “cedimento” alle “pretese” e ai “ricatti” dei Verdi che come convinta adesione alle ragioni della non dimostrata utilità degli sbarramenti mobili ai fini dell’equilibrio tra difesa dalle acque alte e officiosità del porto.
La prima giunta Cacciari era nata sulla base di un documento che assumeva come impegno prioritario quello di procedere alla costruzione della Città metropolitana, inserendo in questo quadro l’articolazione dell’attuale territorio del Comune di Venezia in più municipalità. Il candidato sindaco aveva sottolineato con affermazioni drammatiche questa priorità.
La cosa è caduta rapidamente nel dimenticatoio. Nessun ruolo ha svolto l’autorevole Comune di Venezia a livello nazionale e regionale, nessuna concreta e sistematica azione di coordinamento con i comuni dell’area e con la provincia per far vivere già la città metropolitana nelle coscienze e nelle decisioni amministrative. Eppure è ovvio che far vivere la città metropolitana (la “Grande Venezia”, se vuoi) nelle cose prima che nelle istituzioni non avrebbe dovuto essere difficile: avrebbe significato praticare il percorso che comunicatori meno efficaci e carismatici del Sindaco-Filosofo hanno seguito in altre città europee, da Lione a Marsiglia a Londra.
Mi domando, marginalmente: che senso ha, oggi, opporsi alla nuova replica del referendum di separazione di Mestre da Venezia? Ma la colpa non è di Costa.
Venerdì Francesco Indovina ha detto, nel suo intervento, che le proposte per Venezia lanciate da Massimo Cacciari nel 1988 erano astratte e impraticabili. Sono d’accordo solo in parte: quelle proposte di fatto riprendevano la linea, chiamiamola così, “di sinistra” degli anni trascorsi, ravvivandola e dandole nuovo smalto. Ma Indovina ha ragione quando dice che erano proposte calate dall’altro, prive di un reale rapporto con la città. Certo, non è detto che toccasse a un gruppo di intellettuali praticare questo rapporto, e ricordiamo tutti in che condizioni fossero allora i partiti. Gli toccava, però, avere un minimo di coerenza quando si passava dalle parole ai fatti. Questo non c’è stato.
È a partire da quegli anni che si è praticato, a Venezia, un approccio che definirei demagogico-mercantile ai problemi della città. Un approccio volto più a conquistare consensi generici e indifferenziati nell’opinione pubblica cittadina e foresta che a rendere concreto un nuovo progetto per la città, quale era stato lanciato nelle proposte dell’Istituto Gramsci.
Intanto, il “più mercato e meno Stato” mieteva le sue vittime. Il “rapporto con i privati” (in primo luogo le aziende interessate alla valorizzazione immobiliare) è diventato il motore della politica urbanistica. I vincoli sono diventati i nemici da abbattere. Per non lasciare “ingessata” la città si sono distrutti gli strumenti che avrebbero consentito di regolarne le trasformazioni. Per “non dire di no” si lasciavano esporre le automobili della Fiat e della Volkswagen nei campi e nella stessa piazza di cui, nel 1988, si era celebrata la sacralità.
Certo, tutto questo veniva fatto con un certo stile. Oggi, perfino quello stile s’è perso. La storia del “nuovo logo” di Venezia è emblematica, e allucinante. Oggi sul Gazzettino il Sindaco ci dice che il nuovo (orrendo) logo è finalizzato a far conoscere Venezia al mondo, per conquistare i mercati!!! Come se Venezia non fosse già da secoli, e ormai stabilmente, uno dei più forti miti del mondo, e avesse bisogno di farsi propaganda come una qualsiasi ditta delle campagne del Nord-ovest. E come se il suo problema non fosse quello di governare per essere all’altezza di quel mito, e per non farsene divorare.
Questa è una domanda alla quale è davvero difficile rispondere. Mi ci proverò, sulla base di quanto ho sentito nella riunione di venerdì.
In primo luogo, credo che si debba costruire un progetto per la città, Senza enfasi, raccogliendo criticamente quello che s’è prodotto nel passato, e quello che magari di nuovo fosse maturato. Posso prevedere che lavorando in questa direzione emergeranno due linee.
Una, che permeava l’intervento pronunciato da Armando Danella, vede nelle caratteristiche peculiari della città e del suo territorio la risorsa da valorizzare per il suo futuro. È una linea che ho altre volte tentato di argomentare, e che continuo a ritenere l’unica capace di salvare i valori incarnati nella città proiettandoli un futuro per tutti. Una linea difficile, fortemente innovativa non nella sua formulazione ma nella sua capacità di realizzazione. Pretenderebbe una forte convinzione e condivisione, cosa che non vedo facile in questi chiari di luna.
L’altra, che si affacciava nell’intervento di Indovina, tende a cogliere le opportunità che l’attuale forma dello sviluppo offre per rilanciare la vita economica e sociale della città. Linea che ha una sua ragionevolezza, ma che io vedo molto rischiosa perché trascura il fatto che l’attuale forma dello sviluppo tende all’omologazione di Venezia al resto del mondo, e quindi a distruggerne le qualità che la rendono, appunto, un mito: un valore universale e, insieme, una risorsa duratura per i suoi abitatori.
Forse sarebbe utile se l’intellettuale collettivo - che “Aprile per la sinistra” a Venezia potrebbe proporsi di essere - discutesse sensatamente tra queste due linee, ne scegliesse una e su questa continuasse a lavorare. Come? Con quali obiettivi “politici”? Per ora, continuando a ragionare e studiare e discutere: come fecero millant’anni fa i Fabiani, prima che in Gran Bretagna nascesse un partito dei lavoratori.