manifesto, 17 dicembre 2014
Dopo decenni di esortazioni ossessive sull’austerità espansiva e le cosiddette riforme strutturali, il tema della lotta alle crescenti disuguaglianze sembra tornato centrale per affrontare i problemi non solo di giustizia sociale e di benessere in senso lato, ma anche della crescita economica. Studiosi e accademici (il grande successo del Capitale del XXI secolo di Thomas Piketty), istituzioni internazionali come il Fondo monetario internazionale o l’Ocse propongono studi difficilmente confutabili sulla crescita delle diseguaglianze sfatando alcuni miti del neo (ma anche vetero) liberismo.
Purtroppo questa consapevolezza non ha ancora sfiorato i governi, in particolare quelli europei. La commissione europea insiste con perseveranza del tutto diabolica sul rigore e il rispetto di regole prive di fondamento, mentre qualche governo mediterraneo si agita per mettere l’accento sulla crescita, ma essendosi preclusa per ignavia, per opportunismo o per acquiescenza verso interessi “forti” qualsiasi via efficace, si riduce ad insistere sulle riforme strutturali, che per quanto riguarda la politica economica sono un modo elegante di affermare la volontà di ridurre sempre più il lavoro a strumento, a merce che serve a produrre altre merci.
Come diceva Keynes, gli uomini al potere «sono spesso gli schiavi di qualche economista defunto. Pazzi al potere, i quali odono voci nell’aria, distillano le loro frenesie da qualche scribacchino accademico di pochi anni addietro».
Il nostro capo del governo afferma spesso di essere a favore dell’uguaglianza ma contro l’egualitarismo. Che questa frase sia più adatta all’epoca del telefono a gettone non sembra turbarlo affatto. Come ricorda Paul Krugman, l’alternativa è tra chi preferisce l’eguale ma estremamente improbabile possibilità per ciascuno di vivere secondo lo stile di vita dei ricchi e dei famosi (una eguaglianza da lotteria) e chi ritiene che tutti debbano avere la possibilità di vivere una vita dignitosa. Renzi da che parte sta?
A differenza del suo ispiratore Tony Blair, non sembra nemmeno che il governo italiano sia particolarmente sensibile al problema della povertà. Per lo meno Blair si proponeva di eliminare la povertà infantile. Non che ci sia riuscito, ma qualche risultato lo ha pur raggiunto, almeno a giudicare dai dati Ocse secondo i quali in Inghilterra il tasso di povertà relativa della popolazione sotto i diciotto anni era nel 2011 del 9,5%. La media Ocse era del 13,9% e il dato dell’Italia il 17,3%.
Ma come giustamente sottolinea l’Ocse, che certamente non può essere sospettata di vetero-egualitarismo, ma che sul tema negli ultimi mesi e ancora pochi giorni fa è intervenuta più volte con focus, rapporti e studi, il problema non è solo la povertà, ma la crescente diseguaglianza nella distribuzione del reddito.
Non solo da diversi decenni il 10% della popolazione che ha il reddito più basso resta sempre più indietro, ma l’effetto negativo affligge il 40% meno ricco della popolazione. Anche da questo punto di vista l’Italia non brilla tra i paesi europei.
Infatti, secondo dati Eurostat, al 40% più povero della popolazione va il 19,8% del reddito complessivo, una quota più bassa della media europea (21,2%). L’Italia poi, come è noto, tra i paesi europei ha un alto indice di Gini, che misura la diseguaglianza nella distribuzione del reddito, più basso solo di Grecia, Estonia, Portogallo, Spagna e Regno Unito. Inoltre, per citare un altro dato tra i tanti che mostrano la nostra arretratezza, il rapporto tra la quota di reddito ottenuta dal 10% più ricco della popolazione e quella del 10% più povero è in Italia molto alto (11,18), inferiore, in Europa, solo a Spagna, Grecia, Bulgaria, Romania e Lituania.
Se a questi dati aggiungiamo che secondo un rapporto del Social Institute Monitor Europe, che si propone di calcolare un indice relativo alla giustizia sociale nei diversi paesi europei, l’Italia si colloca al 23° posto, insieme alla Lituania, nella classifica dei 28 paesi dell’Unione europea, si capisce che ci sarebbe molto lavoro per un governo nel quale la forza principale è un partito che si dichiara di centro-sinistra, ma non sembrano queste le priorità.
La novità delle ultime analisi è che esse provano, attraverso stime econometriche, che la maggiore diseguaglianza causa un rallentamento della crescita economica, soprattutto restringendo le opportunità di ottenere alti livelli di istruzione, per una parte significativa della popolazione, scoraggiando la formazione del cosiddetto capitale umano (ma il termine non mi piace, rimandando ad una umanizzazione del capitale e ad una reificazione delle qualità umane) e ostacolando la mobilità sociale.
Per l’Italia si stima che la mancata crescita del Pil reale per abitante causata dalla crescita delle diseguaglianze sia del 6,6% dal 1990 al 2010. Considerando che la crescita effettiva in questo periodo è stata dell’8%, non è certo poca cosa. Altro che articolo 18!
L’Ocse propone di affrontare il problema della diseguaglianza con misure che fino a poco tempo fa sarebbero state considerate poco meno che bestemmie dalla saggezza convenzionale.
In primo luogo propone di accrescere la redistribuzione del reddito e riformare in questo senso la struttura della tassazione, aumentando la aliquota marginale delle imposte sui redditi più alti, cioè esattamente il contrario di quanto è stato fatto negli ultimi decenni. In Italia, ad esempio, la aliquota marginale era del 72% ancora nel 1982.
Come nota il rapporto dell’Ocse la diminuzione delle aliquote fiscali sui redditi alti non solo deprime l’effetto redistributivo sui redditi disponibili, ma tende a far aumentare la quota di reddito ottenuta dai più ricchi, per i quali diviene più facile, in un circolo virtuoso per loro ma vizioso per tutti gli altri, accumulare capitale e accrescere ulteriormente i propri redditi. Infatti in Italia la quota di reddito di mercato (cioè stimata prima della tassazione) ottenuta dall’1% più ricco della popolazione è passata dal 6,4% del 1982 al 9,38% del 2009.
Ma il rapporto dell’Ocse suggerisce anche di eliminare o ridurre le deduzioni fiscali che tendono a beneficiare i più ricchi e riorganizzare il sistema di tassazione su tutte le forme di proprietà e di ricchezza. In particolare si sottolinea l’importanza di ripensare il ruolo della tassazione sui redditi da capitale. Quest’ultimo punto appare molto significativo per Italia in cui la quota di reddito proveniente dal capitale del 10% più ricco della popolazione è significativamente più alta in confronto agli altri paesi di cui l’Ocse fornisce i dati.
L’altra raccomandazione dell’Ocse, dopo anni di austerity e di attacchi al welfare state, è di incrementare i trasferimenti pubblici a favore non solo dei poveri, ma del 40%, e promuovere e favorire l’accesso ai pubblici servizi di alta qualità, in particolare l’istruzione e la sanità.
Non è il caso di attendere per vedere se queste idee saranno veramente assimilate nel prossimo futuro e ancor meno aspettare che Renzi si accorga che la modernità ha cambiato segno. Anche lui, al di là della retorica, è immancabilmente schiavo di qualche economista defunto. Ma le sparse forze della sinistra politica, nel momento in cui la sinistra sociale e sindacale mostra finalmente vitalità, farebbero bene da subito a organizzarsi attorno ad un programma che abbia al suo centro l’eguaglianza