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Lodo Meneghetti
Esiste ancora una “questione delle abitazioni”?
15 Novembre 2005
Lodovico (Lodo) Meneghetti
Non se ne parlava più, o pochissimo. Pareva ...

Non se ne parlava più, o pochissimo. Pareva che il problema della casa in Italia fosse stato risolto. Se capitava di leggerne sulla stampa notavamo la soddisfazione con la quale si pretendeva di collegare la presunta risoluzione alla diffusione della proprietà dell’abitazione, davvero notevole nel nostro paese. Si tendeva a esagerarne la portata trascurando la maggior precisione che la consultazione dei quadri statistici avrebbe permesso, così da rendere dubbioso chi volesse ragionare sul corso della condizione socioeconomica negli ultimi anni secondo cui è aumentata rapidamente la povertà e soprattutto il divario, giunto a livelli inaccettabili, fra i decili o i quintili o i terzili di famiglie più facoltose da un lato e più indigenti dall’altro. Poveri sì ma proprietari, dunque protetti e ben sopravviventi… Intanto si è consolidata lungo il tempo un’immagine convenzionale del paese che sociologi e giornalisti ci avevano più volte illustrato, un’Italia cosiddetta del 70 e del 30 %. Vale a dire una nazione in cui una bella maggioranza di persone o di famiglie costituirebbe un insieme molto differenziato ma che comprenderebbe, discendendo dal gruppo dei ricchissimi lungo la scala dei redditi – meglio dire delle classi o dei ceti – quelle in grado di vivere con parsimonia ma senza troppe rinunce ai consumi imposti dal modello economico-sociale dominante. Fuor del confine la minoranza estranea al gruppone, anch’essa disposta scalarmene fino all’ultimo gradino della pura sopravvivenza.

La proprietà dell’abitazione a partire dalla seconda metà del Novecento, riconosciuta importante componente appunto protettiva dell’esistenza produttiva e riproduttiva, non rappresenta automaticamente e totalmente appartenenza ai ceti abbienti, né, specialmente, coerenza della misura e della qualità dell’alloggio ai bisogni. Troppi sono i fattori variabili e le domande da introdurre nel tema dei bisogni entro la questione abitativa per affrontarlo qui. A ogni modo si può esser sicuri che una certa quota di alloggi posseduti non corrisponda a un buon abitare anche se il peggio sarà concentrato nelle affittanze.

E, dimenticate le celebrazioni della proprietà, ecco esplodere improvvisamente sulla stampa una nuova attenzione al problema della penosità abitativa, che, si sa, riguarderebbe coloro che la casa non ce l’hanno non solo come propria ma nemmeno mediante un canone accettabile. A Roma un grande corteo di inquilini invade le strade e rilancia i vecchi slogan sulla casa come diritto se non servizio sociale; chiede il blocco degli sfratti, denuncia le distorsioni del mercato: la speculazione edilizia, il fermo alla costruzione o al riutilizzo di case popolari, la cartolarizzazione di beni pubblici che ha prodotto nuovi inquilini precari, il crescente debito delle famiglie con le banche a causa dei mutui. Sembra di tornare indietro nella storia urbana. Non siamo alla battaglia di Corso Traiano a Torino né al successivo sciopero generale per la casa (1969, altri tempi, altre situazioni), ma riguardo alle grandi città qualcuno suona l’allarme. Il sindaco della decima circoscrizione comunale romana viene sottoposto a indagine giudiziaria perché requisisce case a Cinecittà per fronteggiare, afferma, l’emergenza della quale poco si occupa la politica. Il Cresme diffonde i risultati di uno studio: l’affitto è una difficile alternativa alla proprietà dal momento che se il costo dell’acquisto è fortemente aumentato, non lo è di meno il prezzo dell’affitto, anzi nelle aree metropolitane ha potuto toccare l’85% di aumento fra 1998 e 2004 contro il 65% inerente agli acquisti. Affittare alloggi da privati potrebbe significare fra breve una taglia, in media, del 40 % per redditi di 20.000 euro. Quasi una coincidenza, in tutt’altro ambiente sociale: pochi giorni prima ad Alghero filosofi in convegno sul tema dell’abitare avevano riflettuto su una crisi vista, invece che soltanto come scarsità, quale perdita dell’appartenenza al luogo, a una “patria”-radice, un habitat. Pensiamo: chi più sradicato, o in pericolo di esserlo, di chi dis-abita nella paura di non conquistare o di perdere un diritto primario, chi deve lottare per poter vivere in pace in un suo piccolo spazio indubitato (“titolo di godimento” a parte)?

Osserviamo i rilevamenti del Censimento 2001. Forse non è un caso che la ripartizioni degli alloggi fra proprietà e affitto-più-“altro titolo” (gli alloggi relativi a quest’ultimo potrebbe mostrare persino una minor qualità) corrispondesse quasi a quel sociologico 70/30: nel totale nazionale 71, 4 % la proprietà, 28,6 l’affitto più l’”altro titolo”. La proprietà, secondo certe stime recenti, sarebbe faticosamente cresciuta ancora di qualche punto, specchio sicuro della difesa ad ogni costo avverso il ricatto dell’affittanza in una fase storica del moderno in cui il patrimonio abitativo pubblico disponibile sul mercato degli affitti tende a ridursi sempre di più. Faticosamente, ho scritto, pensando alle famiglie che danno il sangue alle imprese e alle banche e riducono tutti i consumi non essenziali – in primo luogo quelli culturali e di svago – per il possesso della casa (non illusorio, spero).

Minoranza tuttavia i privi di proprietà; perciò, mi dicono, il tema non sfonda nella politica nazionale. Se è per questo, nemmeno al centro di quella locale, come dimostra l’avventura romana di un semplice amministratore di circoscrizione. Destino delle minoranze. Che poi possono costituire una massa, come mostrano i numeri assoluti anziché relativi: il totale nazionale delle abitazioni in affitto al momento del censimento ammonta a 4 milioni e 325 mila; aggiungendovi gli alloggi occupati ad altro titolo siamo a 6 milioni 190 mila. Se procediamo dentro i dettagli dei rilevamenti e facciamo qualche semplice operazione, scopriamo il surplus di quasi 200 mila famiglie rispetto agli alloggi occupati, che significa quantomeno 400 mila coabitazioni, peraltro indicate cautamente in altra fonte in circa di 240 mila secondo la dizione “abitazioni con due e più famiglie”. Infine l’Istat, portata secondo una lunga tradizione democristiana a dipingere di rosa la situazione del paese, indica in 22 mila i senza casa definiti compuntamene “non in abitazione” (dove, se no? Baracche, rottami di tende, cartoni, sottoponti, portici, androni e così via): homeless che di certo era difficile contare nella loro presenza/residenza effettiva e che l’osservazione diretta urbana ci dice essere stati molti di più, allora, ed essere aumentati vertiginosamente negli anni successivi.

“Abbiamo prodotto troppe case o, meglio, abbiamo prodotto le case che non servono” disse Pier Luigi Cervellati al Convegno nazionale del Pci su Casa esodo occupazione tenuto a Venezia nel 1973. Era già vero e in seguito diventerà sempre più vero. Una gigantesca edificazione privata diretta alla moltiplicazione della rendita fondiaria e del profitto improduttivo in edilizia, che cedeva opportunisticamente la realizzazione della casa equa, per così dire, agli enti pubblici: invece sempre meno votati a un ruolo di questo genere e finalmente ridotti a non costruire più nulla e semmai a vendere i propri patrimoni immobiliari. Dobbiamo forse rimpiangere l’attività degli Istituti autonomi per la casa popolare (Iacp) prima e persino durante il fascismo, per esempio a Milano e a Roma?

La contraddizione più evidente del mercato in Italia è l’eccezionale quantità di abitazioni non occupate, cresciute senza soste dai primi anni Cinquanta in avanti secondo un andamento che in certi decenni ha provocato l’appropriazione di più dell’intero aumento degli alloggi. Un fenomeno impressionante, un primato: il Coordinamento europeo per l’alloggio sociale (Cecodhas) indica nel 24 % la quota odierna di appartamenti vuoti, quando la media europea sarebbe solo dell’11,8 % e quella relativa alla Francia addirittura di un misero 6,8% (notato sui quotidiani del 20 ottobre). Ma, per maggiori informazioni, torniamo al censimento e leggiamo anche i dati assoluti. 5 milioni e 640 mila le abitazioni non occupate, circa il 21 % del totale. Dunque una certa stabilizzazione proporzionale rispetto a dieci anni prima (21,3, grazie tante) con un ulteriore aggiunta di quasi 400 mila unità. Nuovo scatto negli anni fino a oggi, se ci affidiamo alla stima dell’ente europeo. In ogni caso mancano le parole per designare tale ennesima distorsione economica e sociale del paese. Il fenomeno è dovuto solo in piccola parte alla fisiologia della compra-vendita e degli affitti. La fetta di case vuote nelle città e al loro contorno comprende un patrimonio reso dalle immobiliare artificiosamente indisponibile al fine di provocare un effetto di compressione sulle abitazioni pronte per la vendita o l’affitto, così da aumentarne il prezzo. La stessa funzione svolge la trasformazione della destinazione – reale o formale – da abitazioni a uffici nei periodi convenienti. Ma l’insieme degli alloggi vuoti nelle città, nelle aree metropolitane e nelle aree non turistiche, insomma quelli non definibili “seconde case”, anche le case definitivamente abbandonate, per esempio nel mezzogiorno e dappertutto sulle montagne, non supera il 5-6 %, che del resto non è poco. (A Milano, da tempo maestra di deregulation, siamo quasi all’8 %, nella provincia al 6,7, nella regione lombarda a oltre il 14 %, evidente riflesso della presenza di ampie aree turistiche). Dunque la stragran parte del parco alloggi statisticamente non occupato è imputabile alle seconde, e terze, e quarte… case, cioè alle abitazioni che il linguaggio statistico definisce quali “destinate a vacanze e fine settimane” (ma l’Istat le conteggia erroneamente, in maniera incerta e insufficiente). I quasi cinque milioni di tali abitazioni accreditate per l’oggi, dopo cinquant’anni di recita da protagoniste del mercato, rappresentano l’essenza dello spreco, delle “case che non servono” e indicano un ulteriore divario sociale. Da una parte i possessori di una casa primaria, un’altra al mare, spesso una terza in montagna o ai laghi o in collina; da un’altra i poveracci che scendono in piazza e gridano dimenticati proclami del movimento operaio. Osservazione demagogica? Chiedo il permesso di immaginare un crudo contrasto fra una famiglia dei primi e un’abitazione-vita di un’altra che si adatta in un basso di Napoli, oppure una donna anziana sola, pensionata, che si arrabatta in una stanza di un’ultima residuale casa a ballatoio col cesso sul medesimo nel quartiere Ticinese-Genova a Milano: ormai tutto in mano ai padroni di un mercato rivolto alle élite che invadono le zone ex-popolari della città.

Lodo Meneghetti

9 novembre 2005

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