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Eric Hobsbawm - Una storia vera
3 Ottobre 2012
Altre persone
Articoli di Gianpasquale Santomassimo e di Gianni Ferrara per cominciare a riflettere sul grande storico comunista scomparso.Il manifesto2 ottobre 2012

Al tempo della rivoluzione

di Gianpasquale Santomassimo

All'età di 95 anni, scompare quello che è stato probabilmente il più grande storico marxista del Novecento, certamente il più popolare e noto al grande pubblico. Una popolarità, quella di Eric J.Hobsbawm, relativamente recente e legata in grandissima parte alla fortuna e alle controversie suscitate dal Secolo breve. Come ricordava nella sua autobiografia Anni interessanti, per la stampa inglese era stato a lungo soltanto «quello storico che è rimasto comunista e che ama il jazz».

Nato ad Alessandria d'Egitto nel 1917, dall'incontro fra una ebrea viennese e un ebreo polacco immigrato in Inghilterra e spedito in Egitto quale funzionario - e da questa origine familiare, possibile solo nel mondo degli imperi che andava declinando, trarrà l'incipit per il suo volume The Age Of Empires - seppe utilizzare tanto il lascito cosmopolita quanto quella «posizione leggermente angolata rispetto all'universo», di cui si era parlato a proposito del poeta greco Kavafis, nato nella stessa città. Il suo cognome era il risultato di una serie di travisamenti della burocrazia imperiale attorno all'originario Obstbaum, che il nonno ebanista polacco aveva portato con sé emigrando in Inghilterra.

Il suo rapporto con l'ebraismo, mai praticato religiosamente né riscoperto in età avanzata, come accadde a molti intellettuali, si limitò al rispetto del principio fortemente ribadito da sua madre: «Non fare mai qualcosa né dare l'impressione di far qualcosa che lasci pensare che ti vergogni di essere ebreo»; un precetto che dichiarò di aver sempre cercato di osservare «benché alla luce del comportamento del governo israeliano, la fatica di attenervisi sia a volte quasi intollerabile». Agli ebrei di San Nicandro Garganico è dedicato uno dei suoi ultimi scritti, molto bello, uscito sulla London Review of Books.

Ma era anche consapevole di essere un sopravvissuto della «civiltà ebraica delle classi medie dell'Europa centrale dopo la prima guerra mondiale». Tra Vienna e Berlino, dove visse da giovane, non c'era molta possibilità di scelta, in quella Europa: si poteva diventare o comunisti o sionisti, e il giovane Hobsbawm compi la scelta del comunismo a cui rimase fedele per tutta la vita.

Nell'ambiente di Cambridge, tra grandi storici come Dobb e Cole, maturò rapidamente un personale ventaglio di interessi, uno stile e una forma di marxismo che ne avrebbero contraddistinto l'opera, rendendola immediatamente riconoscibile.

Una visione globale

Chi leggeva negli anni Sessanta The Age Of Revolution, che diverrà il primo volume della grande quadrilogia sul mondo contemporaneo - non voluta né pensata tale all'origine - si rendeva conto subito di trovarsi di fronte a qualcosa di diverso rispetto a ciò che passava in genere per storiografia marxista. In quel libro, che rimane forse il più bello tra i suoi volumi d'insieme, non c'era il plumbeo economicismo di tante trattazioni, pur occupandosi in gran parte di economia, ma non solo: il mondo nuovo emergeva dall'intreccio di una «duplice rivoluzione», quella industriale che muoveva dall'Inghilterra e quella politica che dopo avere debuttato negli Stati Uniti trovava il suo pieno dispiegamento in Francia. Le due rivoluzioni confluivano e cambiavano tutto il mondo, non solo nel modo di produrre, ma in quello di pensare, di vivere, di sentire. Colpivano i capitoli sull'evoluzione della cultura, delle arti, delle scienze, della musica, che poi diverranno caratteristica abituale nella quadrilogia. Colpiva la dimensione internazionale della trattazione, in un libro dove c'era più Toissant Louverture che Danton o Saint-Just, dove si cercava di dar vita a una storia collettiva, basata sull'interdipendenza tra civiltà europea e atlantica e quelle degli altri continenti; effettivamente globale molto prima che qualcuno immaginasse un termine come «globalizzazione».

E in questo modo, soprattutto, si riscopriva il vero Marx del Manifesto, non un filosofo regressista che deprecava un indistinto «capitalismo», ma l'esaltatore della portata rivoluzionaria che l'industrializzazione capitalistica aveva portato nel mondo, e che rendeva possibile anche il suo superamento. A «questo» Marx Hobsbawm si richiamerà anche nelle sue ultime opere, e in particolare nel recentissimo Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l'eredità del marxismo.

Colpiva la leggibilità dell'opera, che non derivava da un compromesso con il rigore e la completezza. Né poteva parlarsi di «divulgazione», ma di una nuova interpretazione e di una nuova sintesi, completa anche nel dettaglio ma senza inutili sfoggi di erudizione.

Hobsbawm era del resto uno dei pochi storici che si era posto realmente il compito di «tentare almeno di comunicare con i cittadini comuni», senza che ciò comportasse uno scarto stilistico tra produzione storica e contributi giornalistici. «Mi sembra - affermava in una intervista degli anni Settanta - che sia molto importante scrivere storia rivolta non soltanto all'accademia. Nell'arco della mia vita la tendenza dell'attività intellettuale è stata quella di concentrarsi in modo crescente nelle università e di farsi sempre più esoterica, tanto da consistere nel lavoro di professori che parlano per altri professori, ascoltati distrattamente da studenti che devono ripetere le loro idee per poter superare i programmi di esami fissati da professori. Questo restringe considerevolmente la disciplina intellettuale».

Tra ribelli e banditi

I soggetti privilegiati nella sua lunga ricerca saranno ribelli, rivoluzionari, anche banditi, nell'intreccio tra idee rivoluzionarie e forme primitive di rivolta, dai ribelli del Monte Amiata a quelli del latifondo siciliano. Gente non comune, come recita il titolo di una sua raccolta, ma anche common gentry. E, anche e soprattutto, operai e lavoratori. Anche qui si nota la concretezza dell'approccio di Hobsbawm alla storia sociale, che per lui deve essere pienamente storia della società, e non sociologia retrospettiva.

Respingeva come schematica l'idea di una classe operaia come «una sorta di sottosuolo passivo e qualunquista... o come un immenso ghetto comprendente gran parte della nazione, o al più come una forza capace di mobilitarsi solo in difesa di interessi economici più o meno corporativi».

Era storia anche di «mestieri» e della loro trasformazione, talvolta rapida, a volte lentissima nel tempo; ma era anche storia «culturale», a pieno titolo, evoluzione di forme di coscienza e consapevolezza. La diffusione delle idee di Marx e il loro acclimatamento nei vari ambiti nazionali, di cui aveva parlato in sintesi nella Storia del marxismo Einaudi, erano parte integrante di questa storia.

In quello che è il profilo più aggiornato ed esaustivo in lingua italiana, Aldo Agosti aggiunge che Hobsbawm «vede affermarsi soprattutto dopo il 1890 una forte coscienza di classe nelle aree urbane, non identificabile però semplicemente con quella delle avanguardie di attivisti e militanti socialisti. I caratteri fondamentali di questa emergente coscienza di classe sono un profondo senso della separatezza del lavoro manuale, un codice non formulato ma molto forte basato sulla solidarietà, la "lealtà", il mutuo aiuto e la cooperazione; e si accompagnano alla formazione di modelli di comportamento, di abitudini e di stili di vita sui quali Hobsbawm proietta rapidi ma efficaci squarci di luce: l'affermarsi del football come uno sport proletario di massa, lo sviluppo di un luogo di vacanza frequentato quasi esclusivamente dai lavoratori e dalle loro famiglie come Blackpool, la diffusione degli spacci di fish and chips, e persino l'adozione dell'"inconfondibile copricapo" del proletariato britannico, il berrettino reso poi celebre dalle vignette di Andy Capp degli anni '60» (Aldo Agosti: Il test di una vita: profilo di Eric Hobsbawm, Passato e presente, n. 82, 2011).

Un altro tema assolutamente originale introdotto da Hobsbawm sarà la demistificazione dei miti di fondazione delle nazioni moderne (le tradizioni inventate), che aprirà un filone di interessi e di ricerca tuttora non esaurito.

Abbiamo detto che fu si proclamò comunista per tutta la vita, e rimase anche dopo il 1956 nel piccolo partito comunista britannico: ma nel corso degli anni divenne in patria un consigliere ascoltato del Labour Party, fortemente critico tanto della rigidità «classista» dell'era di Kinnock, incapace di comprendere i mutamenti della società, quanto del New Labour di Tony Blair, null'altro che «un Tatcher con i pantaloni». Ma la svolta di Miliband è frutto anche in parte della sua critica, e di un rapporto personale e familiare (il padre fu valido storico e teorico marxista).

In realtà Hobsbawm dichiarò di essersi considerato a partire dal 1956 un «membro spirituale» del partito comunista italiano alle cui idee si sentiva particolarmente vicino. Le numerose pagine «italiane» testimoniano di un lungo rapporto che fu anche familiarità e condivisione di problematiche con una generazione di storici (Rosario Villari, Ernesto Ragionieri, Giuliano Procacci, Renato Zangheri) e anche di politici (Giorgio Napolitano, in modo particolare, che intervistò nel 1976, quando la breve fiammata dell'«eurocomunismo» aveva acceso interessi e speranze destinate a declinare).

C'è in rete una «videolettera» toccante registrata il 20 marzo 2007 in cui Hobsbawm si rivolge ad Antonio Gramsci, con gratitudine e ammirazione, che più di ogni altro documento attesta il legame «italiano», sentimentale e teorico, dello storico inglese verso una forma di comunismo che sentiva vicina alla sua sensibilità.

La frana dell'Occidente

La sua popolarità presso il grande pubblico, come abbiamo ricordato, derivò in gran parte dal Secolo breve, titolo italiano di The Age Of Extremes, volume che brevemente e forse un po' bruscamente concludeva il ciclo del «Lungo Ottocento» che era stato oggetto dei volumi di sintesi che lo avevano preceduto. È la sua opera più discussa, e forse la più discutibile, per tanti motivi. Di fatto, Hobsbawm passerà gli ultimi anni della sua vita a discutere, limare, correggere quelle interpretazioni, alla luce dei nuovi avvenimenti che cambiavano il quadro del mondo descritto nell'ultimo capitolo: la Frana, che seguiva improvvisamente all'Età dell'Oro dell'Occidente. Ora la frana si è approfondita, rischia di travolgere tutto, e l'Occidente che si sentiva trionfante nell'Ottantanove appare sempre più in declino. Il secolo americano, che Hobsbawm aveva visto nascere, sembra avviato a chiudersi al momento della sua scomparsa, come aveva previsto a conclusione della sua autobiografia dieci anni fa.

In quella che è una delle sue ultime interviste, nel maggio 2012, l'interlocutore gli chiedeva: Cosa rimane di Marx? Lei, in tutta questa conversazione non ha mai parlato né di socialismo né di comunismo... E Hobsbawm rispondeva: «Il fatto è che neanche Marx ha parlato molto né di socialismo né di comunismo, ma neanche di capitalismo. Scriveva della società borghese. Rimane la visione, la sua analisi della società. Resta la comprensione del fatto che il capitalismo opera generando le crisi. E poi, Marx ha fatto alcune previsioni giuste a medio termine. La principale: che i lavoratori devono organizzarsi in quanto partito di classe».

Quanto alla sinistra attuale, il giudizio era molto esplicito:

«Non ha più niente da dire, non ha un programma da proporre. Quel che ne rimane rappresenta gli interessi della classe media istruita, e non sono certo centrali nella società».

EUROPA

L'evaporazione della democrazia

di Gianni Ferrara

Per essere un veterano della critica all'Europa dei Trattati e dei mercati spero che l'intervento di Habermas, Bofinger e Nida-Ruemelin (la Repubblica del 4 agosto) così come la presa di posizione di Balibar (su questo giornale del 20 settembre) assieme alla crisi di rigetto che si estende nella varie nazioni del Continente ridestino la coscienza europea dal sonno delle ragioni della democrazia.

Quelle ragioni che il neoliberismo dei Trattati ha sottratto ai popoli europei istituzionalizzando della democrazia una autentica mistificazione, quella dell'Ue. La cui legittimazione sarebbe derivata dalla democraticità degli stati di appartenenza. Come se la rappresentanza politica dei Parlamenti di questi stati potesse essere trasferita ai rispettivi governi, usati come tramite per una successiva investitura di rappresentatività operata a favore delle istituzioni intergovernative dell'Unione. L'evaporazione della rappresentanza parlamentare si sarebbe poi estesa oltre le istituzioni intergovernative (Consiglio, Consiglio dei capi di stato e di governo).

Perché tali istituzioni, come del resto lo stesso Parlamento europeo, pur se rappresentativo di tutti i popoli dell'Unione, sono a potestà dimezzata. Possono esercitare le rispettive funzioni soltanto per deliberare su proposte di una diversa istituzione, la Commissione europea, disegnata in modo da farla risultare svincolata dagli stati, dai governi, dai parlamenti nazionali e da quello europeo e finalizzata a «promuovere l'interesse generale dell'Unione» (art. 17, Tue). Interesse che fu identificato nella realizzazione di una «... economia di mercato aperta ed in libera concorrenza» (art. 119 del Tfue). Che la rappresentanza acquisita all'origine dai parlamenti nazionali, una volta ridotto quello europeo ad esecutivo dei trattati, possa librarsi nei cieli d'Europa per poi poggiarsi sulla Commissione di Bruxelles e pervaderla col flusso della legittimazione offertale dalla base sociale dei singoli stati è credenza risibile, affermazione mendace, teorizzazione infondata. Con conseguenze tragiche, quelle della crisi che stiamo vivendo.

Che si tratti del fallimento del neoliberismo con l'autoregolazione dei mercati, suo immediato corollario, non possono esserci dubbi. Tanto più che, via via che l'andamento del sistema costruito su quei principi smentiva una ad una le promesse declamate, si è fatto ricorso a misure che, mirando a conservarlo, lo contraddicono radicalmente trasfigurandolo in neoliberismo coatto. Non potevano che essere altrettanto catastrofiche le conseguenze sul tipo di edificazione scelto per fornire a questa Europa le istituzioni necessarie a farla nascere e ad integrarne la configurazione.

Perciò se ne vanno proponendo nuove architetture istituzionali. Ma da sedicenti costituenti quali Bce, Commissione europea, Consiglio europeo. Quindi da soggetti di legittimazione democratica nulla. Ma il problema si pone e drammaticamente. Non credo però che l'enorme ed esaltante questione dell'unità europea si possa affrontare senza ripudi irreversibili e senza assumere come compito inderogabile la costruzione di quella che Balibar chiama democrazia sostanziale. Non credo che lo si possa senza sbarrare gli effetti della rivoluzione passiva che il capitalismo ha condotto contro lo stato sociale e le conquiste di civiltà arrise al movimento operaio e democratico nel secondo dopoguerra. Non credo che lo si possa senza partire dal fattore originario della crisi mondiale - l'abbandono negli anni 70 del sistema dei cambi fissi - senza cioè riconoscere che la liberalizzazione dei capitali dagli stati comportò e comporta la liberazione dei capitali dalla democrazia negli stati, per quanto in essi si fosse realizzata o si potesse sviluppare. L'Unione europea, per il suo principio fondante e il corollario dell'autoregolazione del mercato, è stata ed è la specificazione europea della sottrazione del mercato alla democrazia, e, più ancora, cancellazione della politica, contraffazione e asservimento del diritto a funzione servente dell'economia liberista.

So bene che queste mie convinzioni mi pongono in posizione opposta a quella di Habermas quanto a concezione del mercato (v. la Repubblica del 23 settembre). Credo che possano però convergere sulla necessità di una unità europea legittimamente fondata, da qui la proposta di «un legislatore eletto da tutti i cittadini europei che possa decidere sulla base di interessi generalizzati a livello europeo». Riemerge però il mio dissenso ed ha ad oggetto il ruolo di tale legislatore. Attiene al diverso grado di legislazione che si pensa debba essere esercitata. Habermas la concepisce come interna o almeno compatibile con l'ordinamento vigente, con lo spirito e la logica dei Trattati. Il legislatore sarebbe compartecipe (la Repubblica, cit.) del Consiglio europeo. La mia opinione invece è che, perché eletto da tutti i cittadini europei, non possa che essere titolare di potere costituente. Uso questa qualificazione per una ragione che credo evidente. Il superamento di questa Europa fallimentare implica il superamento delle sovranità nazionali dimezzate dai Trattati ma ancora vincolanti o anche solo condizionanti. A simboleggiarle ma soprattutto ad esercitare, congiuntamente, poteri derivanti dalle sovranità nazionali è proprio il Consiglio europeo. Confermarlo in tale ruolo incrementandogli i poteri con l'aggiunta di quelli di grado costituente contraddice proprio tale grado di regolazione che si pone come necessaria e che è quella costituente.

Ma c'è un motivo in più a favore della discontinuità con la storia dell'integrazione europea finora perseguita. Gli stati, non solo europei in verità, sono responsabili di un'abdicazione concertata insieme per delegare al mercato la regolazione del mercato. Una delega senza limiti, senza criteri direttivi che, quindi ha privilegiato tra masse di esseri umani e contro masse di esseri umani, gli attori del mercato, quello finanziario e non solo. Questi attori si sono rivelati per quelli che erano e non potevano che essere: responsabili dello spostamento più consistente della ricchezza prodotta dai salari ai profitti e della più estesa e massiccia compressione dei bisogni delle donne e degli uomini. Hanno, questi stati, tradito la loro stessa storia, la più recente, quella che li vide accogliere le domande della democrazia di assumere la qualificazione "sociale" rendendola credibile col riconoscimento del principio dell'eguaglianza sostanziale e quello dei diritti sociali. Questi stati a fronte del fallimento del neoliberismo non reagiscono, non revocano l'abdicazione compiuta a favore del mercato autoregolato, non provano a riacquisire ed esercitare i poteri per i quali emersero nella storia e pretesero di legittimarsi, i poteri di garantire la sicurezza di vita dei sottoposti - a questo stadio di regressione si è giunti - sicurezza abbandonata alla devastazione neoliberista.

Perciò questi stati, non possono essere soggetti costituenti della democrazia sostanziale (Balibar) da costruire in Europa assumendo come suo compito l'eguaglianza sostanziale e a suo fondamento i diritti sociali con tutti gli altri che il costituzionalismo ha definito, munendoli di garanzie inderogabili. Certo, attuando il principio no taxation without representation. A condizione che sia una rappresentanza autentica, non distorta, non limitata, controllabile. Perciò aggiungendo: no representation without participation. Ma che sia una partecipazione credibile, cioè regolata, non disponibile per oligarchie irresponsabili. Una democrazia che sia insieme rappresentativa e partecipata. Con la disponibilità per il demos di ambedue le forme di esercizio del potere, distinte solo quanto alla adeguatezza di una delle due alle deliberazioni da compiere. Una democrazia che apra orizzonti alla prospettiva del libero sviluppo di ciascuno come condizione del libero sviluppo di tutti. Un compito enorme ma ineludibile.

Post scriptum. Con tutto quello che comporta di analisi, di riflessione, di approfondimenti, di elaborazione, di invenzione la democrazia sostanziale non potrebbe essere adottata come ragion d'essere di questo giornale? Da qualche parte bisognerebbe pure ricominciare.

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