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Gianni Barbacetto
Eni, giacimenti e corruzione
12 Settembre 2014
Articoli del 2014
Ancora corruzione e il nuovo proprio non avanza. Dalla «madre di tutte le tangenti che ha a che fare con Eni: la maxi-mazzetta generosamente distribuita ai partiti italiani nei primi anni Novanta» a «l’AD nominato quattro mesi fa per portare la "ventata d’aria nuova" annunciata dal premier». Articoli di Ester Nemo e Gianni Barbacetto.
Ancora corruzione e il nuovo proprio non avanza. Dalla «madre di tutte le tangenti che ha a che fare con Eni: la maxi-mazzetta generosamente distribuita ai partiti italiani nei primi anni Novanta» a «l’AD nominato quattro mesi fa per portare la "ventata d’aria nuova" annunciata dal premier». Articoli di Ester Nemo e Gianni Barbacetto.

Il manifestoil Fatto Quotidiano, 12 settembre 2014

Il manifesto

Eni, Descalzi indagato e il governo Renzi tace
di Ester Nemo

Per l’Eni la nuova era Descalzi, tar­gata governo Renzi, doveva coin­ci­dere con un bel repu­li­sti. La prin­ci­pale mul­ti­na­zio­nale ita­liana, infatti, negli ultimi anni è stata coin­volta in scan­dali di cor­ru­zione inter­na­zio­nale. Ma così non è stato. A soli quat­tro mesi dalla nomina a capo dell’Eni del del­fino dell’uscente Paolo Sca­roni – oggi ban­chiere alla Rotschild di Lon­dra – il nuovo ammi­ni­stra­tore dele­gato Clau­dio Descalzi risulta inda­gato dalla Pro­cura di Milano per cor­ru­zione di pub­blici uffi­ciali in Nige­ria, insieme a Roberto Casula, il quale guida le esplo­ra­zioni del gruppo petro­li­fero in Africa.

L’accusa fa rife­ri­mento all’affaire della licenza Opl 245, con­tesa da Shell e vari attori nige­riani sin dall’inizio degli anni 2000. Dall’indagine emerge che l’intero importo di un miliardo e 92 milioni di dol­lari, pagato a metà 2011 da Eni al governo nige­riano dopo un lungo e sof­ferto nego­ziato pieno di colpi di scena, possa essere stato uti­liz­zato in vari modi per pagare ogni cor­rente poli­tica e con­ten­dente in Nige­ria. E non solo. Ben 200 milioni infatti ser­vi­vano per alcuni media­tori nige­riani e ita­liani, tra cui spicca anche l’architetto della log­gia P4 Luigi Bisi­gnani, che a fine 2011 aveva pat­teg­giato una con­danna di un anno e sette mesi a Napoli per asso­cia­zione a delinquere.

Come spesso suc­cede quando gli inte­ressi sono troppi sulla stessa torta, qual­cosa non è andato come doveva. Il cam­bio di governo in Nige­ria a metà del 2010 ha mutato le carte in tavola, cosic­ché il piano ideato in Ita­lia è fal­lito e il governo locale si è posto diret­ta­mente come inter­me­dia­rio, chie­dendo un suo tor­na­conto. Dan Etete, ex mini­stro del petro­lio del dit­ta­tore Aba­cha, che in pas­sato si era auto-intestato la licenza per pochi soldi tra­mite la società Malabu, ha alla fine accet­tato il nuovo accordo tri­par­tito all’inizio del 2011. Nota a mar­gine, Etete era già stato pro­ta­go­ni­sta dell’affaire Bonny Island per cui Snam­pro­getti del gruppo Eni era stata con­dan­nata per cor­ru­zione in Stati Uniti, Nige­ria ed Ita­lia. Tor­nando ai fatti di ini­zio 2011, il prin­ci­pale inter­me­dia­rio nige­riano in quota Eni, Emeka Obi, non è stato al gioco e ha inten­tato una causa alla Corte di Lon­dra, dove erano bloc­cati ancora alcuni soldi dell’Eni, otte­nendo 110 milioni di dollari.

Que­sta somma adesso è stata nuo­va­mente bloc­cata in Sviz­zera in seguito a una ben arti­co­lata richie­sta della Pro­cura di Milano. Anche i rima­nenti 80 milioni, forse pen­sati per il fronte ita­liano, sono stati nuo­va­mente “con­ge­lati” dalla Corte di Lon­dra, sem­pre su richie­sta di Milano, su un conto alla JP Mor­gan. E così oltre all’indagine sulla società già noti­fi­cata ad Eni nel luglio scorso, ieri è emersa l’indagine anche su Descalzi. Nel frat­tempo gli 800 milioni arri­vati in Nige­ria sem­brano essere finiti in mille rivoli sospetti vicini al governo.

Que­sta vicenda è senza dub­bio uno schiaffo per il governo Renzi, che alla assem­blea degli azio­ni­sti del mag­gio scorso con il mini­stro Padoan aveva ten­tato di far appro­vare dalla società gli «stan­dard di ono­ra­bi­lità» anti-corruzione per la nomina dei nuovi ver­tici, forte del 30 per cento di azioni in mano pub­blica. I grandi inve­sti­tori isti­tu­zio­nali hanno respinto la pro­po­sta con tanto di applauso iro­nico a fine assem­blea. Il brac­cio di ferro tra le varie anime del governo ha alla fine impo­sto un interno come ammi­ni­stra­tore dele­gato, met­tendo “di fac­ciata” l’esterna Emma Mar­ce­ga­glia alla presidenza.

Le asso­cia­zioni Re:Common e Glo­bal Wit­ness ave­vano men­zio­nato in assem­blea alla pre­senza del rap­pre­sen­tante del mini­stero dell’Economia i rischi della nomina Descalzi a fronte della con­tro­versa sto­ria Opl 245 che emer­geva dalla carte del pro­cesso Obi a Lon­dra. Ma l’uscente Sca­roni aveva ancora una volta riba­dito che l’Eni non aveva usato inter­me­diari e che non c’era stato nes­sun incon­tro tra Descalzi o fun­zio­nari Eni e Dan Etete. Così non sem­bra, ed ora la palla passa al governo Renzi, men­tre il titolo Eni ieri ha lasciato in borsa l’1,63 per cento.

Il Fatto Quotidiano
Quando dai giacimenti sgorgano mazzette
di Gianni Barbacetto

La “madre di tutte le tangenti”, in fondo, ha a che fare con Eni: è la maxi-mazzetta generosamente distribuita ai partiti italiani nei primi anni Novanta (con l’aiuto, tra gli altri, di Luigi Bisignani), quando Raul Gardini, sconfitto dal sistema politico, sciolse il matrimonio che aveva voluto tra Eni e la sua Montedison. Ma sono molte le indagini che, negli anni seguenti, hanno coinvolto direttamente l’Eni, per i suoi affari petroliferi in giro per il mondo: in Iraq e in Algeria, in Kazakhstan e, infine, in Nigeria. Per le attività in quest’ultimo Paese, l’Eni (che è quotata a Milano e a New York) è stata indagata anche negli Stati Uniti: il Dipartimento della giustizia ha già incassato, nel luglio 2010, una multa di 240 milioni di dollari. Altri 120 milioni di dollari sono stati pagati da Eni e dalla controllata Snamprogetti dopo un accordo raggiunto con la Sec, l’Autorità che controlla la Borsa Usa. Un’altra controllata, la Saipem, nel luglio 2013 è stata già condannata a pagare in Italia una multa di 600 mila euro, dopo una confisca di 24,5 milioni di euro considerati il profitto di affari illeciti in Nigeria.

Gli affari in Algeria sono invece l’oggetto dell’inchiesta Eni-Saipem, filone italiano di un grande scandalo internazionale scoperto nel 2012 e deflagrato nel febbraio 2013, quando il pubblico ministero milanese Fabio De Pasquale manda la Guardia di finanza a perquisire gli uffici di Roma e San Donato dell’Eni e della Saipem, ma anche l’abitazione milanese dell’allora potentissimo numero uno di Eni, Paolo Scaroni. L’ipotesi d’accusa è che sia stata pagata una tangentona da quasi 200 milioni di euro (198, per la precisione) al ministro algerino dell’energia Chekib Khelil e al suo entourage, per ottenere otto grandi appalti petroliferi del valore complessivo di 11 miliardi di euro. La “commissione” di 198 milioni è stata versata da Saipem alla società Pearl Partners, basata a Hong Kong e controllata da un giovane e riccioluto faccendiere internazionale con passaporto francese: Farid Bedjaoui, uomo di fiducia del ministro Khelil e intermediario tra gli algerini e i manager Saipem. Sono indagati per corruzione internazionale, oltre a Scaroni, anche l’amministratore delegato di Saipem Franco Tali, il direttore operativo Pietro Varone, il direttore finanziario Alessandro Bernini, il direttore generale per l’Algeria Tullio Orsi, il responsabile Eni per il Nordafrica Antonio Vella. E vengono trovate tracce, come succede in questi casi, di “ritorno” in Italia, a mediatori e manager Eni, di una parte delle tangenti pagate all’estero. Nel maggio 2012, la Procura di Milano chiede una misura interdittiva che riguarda invece la Agip Kco, ossia la società del gruppo che opera in Kazakhistan. Il pm domanda al giudice di “commissariare la divisione operativa dell’Eni in Kazakhstan o, in alternativa, vietarle di proseguire a negoziare contratti in Kazakhstan”. Qui l’ipotesi dell’accusa è che Eni abbia versato negli anni almeno 20 milioni di dollari come tangenti per facilitare la presenza dell’azienda italiana in quel Paese. A incassare, sarebbero stati il presidente dell’ente petrolifero statale e del fondo sovrano di Astana, già genero del presidente della Repubblica kazaka.

In Iraq è finito sotto l’attenzione dei magistrati italiani il giacimento di Zubair, vicino a Bassora, uno dei più grandi del Paese, con una produzione ipotizzata di 1,2 milioni di barili al giorno: “commissioni” (il nome pudico delle tangenti) sarebbero state pagate per far ottenere all’Eni la concessione per lo sfruttamento del giacimento.

I magistrati della Procura di Roma hanno invece aperto un’indagine di tipo fiscale sulla distribuzione dei prodotti petroliferi: per verificare «la corretta applicazione della normativa sulle accise in ordine ai prodotti petroliferi caricati presso i depositi carburanti di Eni divisione Refining & Marketing». La Guardia di finanza ha effettuato controlli presso diversi stabilimenti e centri di produzione, a Venezia, Pavia, Livorno, Taranto e Gela. “La società – spiega ogni volta un portavoce dell’Eni con apposito comunicato – sta fornendo ampia collaborazione all’Autorità giudiziaria”.

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