Liberista nel mondo occidentale, si potrebbe dire che la politica fu costretta a spogliarsi progressivamente delle proprie competenze e dei propri strumenti regolamentativi delegandoli interamente al mercato, da tutti identificato come unica istituzione capace di garantire allocazioni efficienti e massimizzare il benessere sociale. Questo processo di spoliazione è stato attuato obbligando le autorità pubbliche a scrivere delle regole del gioco che tutelassero «i mercati» da ogni infiltrazione esterna - soprattutto quelle dello Stato - e che impedissero di alterarne il libero funzionamento. Si tratta di una ideologia che, nonostante la recente crisi, trova ancora pienamente corso in quasi tutti i maggiori consessi internazionali. Non c’è infatti documento ufficiale della Bce, dell’Ocse o della Commissione europea che non contenga fra le principali raccomandazioni un solenne richiamo alla necessità di una sempre maggiore liberalizzazione dei mercati – non solo quelli dei beni e dei servizi, ma anche quello del lavoro - per rilanciare la crescita e l’occupazione.
Si tratta di un equivoco che trova purtroppo terreno fertile soprattutto nel nostro Paese. Basti pensare che le misure per la sviluppo varate negli ultimi mesi dal governo sono state identificate quasi unicamente con il cosiddetto «pacchetto liberalizzazioni», quasi che un nuovo miracolo italiano potesse arrivare dallo sconto di pochi euro sul prezzo dell’aspirina o dalla possibilità di trovare un taxi libero con maggiore facilità. Il paradosso è che, mentre il nostro Paese è ancora bloccato a parlare delle sorti progressive del libero mercato, nella patria dell’ultraliberista Margaret Thatcher ci si inizia a muovere in direzione diametralmente opposta.
E lo si fa in un mercato – quello dell’energia elettrica – dove la furia liberalizzatrice della Lady di Ferro conseguì forse i maggiori successi per la rapidità con cui venne demolito il monopolio pubblico. Il 22 maggio scorso, sulla scorta delle indicazioni fornite da un Libro Bianco pubblicato alcuni mesi fa, il ministero per l’energia e il cambiamento climatico del governo guidato dal conservatore David Cameron ha mandato in pensione la storica liberalizzazione del sistema elettrico inglese avviata alla fine degli anni Ottanta. Gli ambiziosi obiettivi fissati dall’agenda Europa-2020 per il contenimento delle emissioni climalteranti e per l’adozione di fonti di energie rinnovabili, uniti alla consapevolezza che da qui a fine decennio oltre un quarto della potenza energetica installata nel Regno Unito dovrà essere sostituita per obsolescenza, ha fatto compiere al primo ministro inglese scelte assai poco scontate per un partito conservatore. A preoccupare il governo di Sua Maestà non sarebbero soltanto i futuri investimenti, ma anche una sempre più probabile distorsione dell’offerta di energia verso una sola fonte primaria.
L’intervento pubblico viene quindi descritto come necessario per correggere gli errati incentivi altrimenti forniti dal mercato. Come ha spiegato con invidiabile chiarezza il Segretario di Stato per l’energia Chris Huhne presentando il progetto di legge, «così come è oggi il mercato non è in grado di rispondere adeguatamente alle sfide della modernità». Per questo a partire dal 2013 saranno introdotte avanzate forme di programmazione, prezzi minimi garantiti, contratti differenziali e decisioni fortemente centralizzate. In pratica sarà il governo di Londra a decidere quali fonti andranno scelte, in quali quantità, dove dovranno essere localizzati gli impianti e quali saranno i costi massimi consentiti, i prezzi e la durata dei contratti. Anche volendo trascurare le motivazioni profonde che sorreggono il brusco cambiamento di rotta del governo britannico, che nella patria delle liberalizzazioni si riscopra l’esigenza di accompagnare il mercato con solidi interventi di politica economica e programmazione di lungo periodo dovrebbe quantomeno sollecitare qualche ripensamento anche nel nostro paese.
L’avversione ideologica a questo tipo di politiche – si parli di industria o di servizi - rischia di danneggiare sul nascere le possibilità di ripresa del nostro sistema economico nei prossimi anni. Ogni tanto bisognerebbe ricordare che il mercato raramente guarda lontano e che, per i lunghi orizzonti, c’è sempre bisogno della politica