«C’è un’amnesia totale. Nessuno si ricorda più di quando a emigrare eravamo noi italiani: milioni di persone in cerca di futuro e anche loro a bordo di carrette».
Emma Bonino ne è sicura, non ci sarà nessuna barriera in grado di fermare chi è disposto a lasciarsi alle spalle tutto ciò che ha pur di salvarsi la vita o provare o ricrearsela in un altro continente.
«L’Unhcr ci dice che a breve ci saranno 50 milioni di rifugiati veri e propri. Poi bisogna considerare le migrazioni di altro tipo - spiega -. Quello migratorio è un fenomeno strutturale e anche se ci sono delle punte emergenziali nei vari continenti, convive da sempre con l’umanità. Noi italiani ne siamo stati grandi protagonisti in passato, tra la prima e la seconda guerra mondiale. Dico sempre che una delle cose migliori che potrebbero fare le scuole italiane è portare i ragazzi a visitare i musei dell’emigrazione italiana. C’è un episodio che mi piace citare: una volta un museo ha fatto un esperimento mettendo a confronto due fotografie. Una rappresentava una nave di emigranti italiani, l’altra la prima nave carica di albanesi che arrivò in Italia nel 1991. Poi hanno chiesto ai ragazzi quali erano gli italiani e quali gli albanesi. I ragazzi non hanno quasi mai indovinato».
I demografi spiegano come l’immigrazione sia sempre più importante per le popolazioni occidentali. Eppure alziamo muri, facciamo blocchi navali, respingiamo le persone. Il nostro è egoismo o incapacità di capire quanto queste persone possono essere preziose per noi?
Secondo me c’è una incapacità della classe dirigente di governare il fenomeno e di mandare i messaggi giusti. E’ chiaro che se una persona vede solo Salvini che sbraita in televisione finirà per credere che se suo figlio non trova lavoro è perché c’è un keniota che glielo ha rubato. Parlare alla pancia funziona sempre, specie in un periodo di crisi vera. Eppure abbiamo tutte le informazioni per capire che l’immigrazione può essere una risorsa. Oggi gli immigrati (legalizzati) in Italia sono circa 5 milioni, contribuiscono all’8.8% del Pil, contribuiscono all’Inps, pagano le nostre future pensioni che loro godono molto poco perché la stragrande maggioranza rientra al suo Paese appena può. Quindi cosa siamo, egoisti o incapaci di capire? Io direi che siamo vittime del populismo della classe dirigente, ma per quanto riguarda l’opinione pubblica in generale parlerei di ignoranza. Hanno creato una guerra tra poveri che funziona benissimo. La verità è un’altra, ed è che noi non vogliamo i poveri, italiani o non italiani che siano.
Lei in passato ha sempre sottolineato la necessità di avere rapporti di partenariato con i paesi del Mediterraneo e ha sponsorizzato la costituzione di un commissario europeo per il Mediterraneo invece di uno per l’Immigrazione. Per quello che valgono i ragionamenti fatti con i senno di poi, se tutto questo si fosse attuato sarebbero diverse le cose?
Parliamo un attimo prima di quanto accade oltre il Mediterraneo. In Asia c’è un grandissimo movimento di cui i Rohingya sono solo la punta dell’iceberg. Pensi inoltre ai Karen che, poveracci, stanno nei campi profughi della Thailandia ormai da tre generazioni e non riescono a rientrare a Myanmar né Myanmar - che ha un centinaio di etnie - li vuole. Poi c’è la frontiera tra Messico e Stati uniti, che ora è diventato il problema Guatemala, Messico, Stati uniti, o l’esodo dalla Colombia per esempio. C’è il Venezuela… Molti sono movimenti migratori prevalentemente interlatini, perché il Brasile va piuttosto bene economicamente. Anche le migrazioni del Mediterraneo le possiamo considerare intracontinentali, perché il Mediterraneo è poco più di un grande lago che ci unisce all’Africa. E qui cosa abbiamo? Da una parte un continente in rapido declino demografico, l’Europa, ma che è ancora il più ricco per quanto riguarda welfare, istruzione, siamo anche più equilibrati degli Stati uniti. A Sud invece c’è un giardino d’infanzia, un continente con una crescita demografica ovunque perlomeno del 3–4%. Poi c’è la parte Sahel tormentata da guerre, dittature, Boko Haram, Shabaab (movimento islamista somalo, ndr). Dove vuoi che vada questa gente? In Botswana? Non è che uno siccome è poveraccio e senza prospettive di vita nel suo Paese, è anche ignorante. Quindi va dove pensa di avere una speranza, una possibilità, cioè in Europa. Dove magari ha già famiglia o conoscenti o amici.
Il problema è che il numero dei conflitti presenti a Sud aumenta quotidianamente.
Questo è un momento della storia che possiamo definire di risveglio arabo e di contaminazioni di vario tipo, perché c’è anche il terrorismo. Noi europei eravamo abituati a lavorare solo con le élite, ne conoscevamo vita, morte e miracoli, le mogli, le amanti e con loro trattavamo. Ricordo che quando mi sono trasferita al Cairo, nel 2001, dopo un po’ cominciai a fare una rassegna stampa del mondo arabo per Radio Radicale nella quale provai a dire: guardate che qui c’è veramente una bomba a orologeria. Parlavo dal punto di vista sociale demografico, non intereligioso. In quegli anni l’Egitto era pieno di bambini, ma con nessuna crescita economica, un milione di nuovi ragazzi che si affacciavano al mercato del lavoro ogni anno, prospettive zero, tutti interconnessi e la stragrande maggioranza di loro non aveva mai visto un’altra faccia oltre alla fotografia di Mubarak appeso al muro di casa sua. Mi sembrava che ci fosse un subbuglio, un popolo che in qualche modo brontolava. Avevo la stessa impressione anche per la Tunisia per dire la verità, ma quando provavo a dirlo mi rispondevano che no, erano popoli stabili.
Perché vivevano sotto dittature che li obbligavano a essere stabili.
Certo, ma erano come una pentola a pressione senza valvola e quindi pronti a scoppiare. Non avevano nessuna agibilità politica, o sindacale. Niente di niente. All’epoca si poteva fare politica solo il venerdì nelle moschee, unico spazio che veniva dato, con tutte le complicazioni che ne potevano derivare. Non sapevo quando e dove tutto questo sarebbe sfociato, ma avevo l’impressione che tutta la regione fosse così: un giardino d’infanzia, senza sfoghi politici né possibilità di alternative politiche, nessuna prospettiva economica salvo ovviamente le monarchie del Golfo, ma questo è un altro discorso. E infatti sia l’Egitto che la Tunisia finché hanno potuto hanno fatto una grande politica di sussidi, al pane, alla benzina, a qualunque cosa. Però non hanno retto, nonostante i potentissimi servizi segreti. Torniamo allora alla mia proposta di un commissario per il Mediterraneo. Quando la lanciai ho pensato che sarebbe stato importante – e lo penso anche ora — fare una politica di contenimento, cercare di aiutare quei Paesi che ancora non sono nel baratro: Tunisia, Marocco, Algeria. Vogliamo parlare dell’Algeria, capire un attimo cosa sta succedendo lì? Quaranta milioni di persone, tantissimi giovani, quasi tutti nati dopo o durante la guerra civile, un bilancio dello Stato che si è ridotto del 50% per il crollo del petrolio. E’ vero che hanno riserve per due o tre anni, ma anche in Algeria - che non esporta nulla - hanno sempre tenuto calma la popolazione con sussidi che prima o poi dovranno cominciare a ridurre. E allora cosa accadrà?
Certo che di fronte a un simile scenario l’Europa che litiga per dividersi 40 mila profughi fa pensare.
Il piano Juncker è importante dal punto di vista del principio, perché in definitiva rimette in discussione il trattato di Dublino. Non è tanto quindi il risvolto pratico della vicenda. Nella timidezza complessiva bruxellese a cui siamo abituati, in particolare della commissione Barroso, devo dire che la commissione Juncker è stata piuttosto decisa e ha posto almeno in discussione tre o quattro argomenti considerati finora un tabù, anche se per ora una revisione del regolamento di Dublino non passa, perché non ci sono i numeri necessari.
L’Italia aveva salutato come un successo la proposta della commissione Juncker di dividere 40 mila profughi tra gli Stati membri, ma l’entusiasmo è durato poco.
Il fatto è che i migranti sono una priorità per noi, ma non per i Paesi che si trovano dall’altra parte del Mediterraneo. Non possiamo andare in Tunisia a dire: tenetevi i migranti, anzi aprite un campo profughi e un ufficio per gestire l’emigrazione legale perché noi prima o poi apriremo le quote. La reazione è scontata: oltre al milione di libici che già abbiamo, e che in un Paese di 11 milioni di abitanti sono un problema non da poco, dovremmo ospitare anche tutti gli africani che verrebbero in attesa di avere un canale legale? E non basta promettere ulteriori finanziamenti. La mia idea è che nessuno ha soluzioni miracolose, neanche i più decisi guerrafondai, quelli convinti che bisogna andare in Libia e bombardare non si è capito chi, come, né dove, però poi boots on the ground nessuno li vuole mettere.
Sarà anche per questo che l’Onu tarda a fare la risoluzione che darebbe il via alla missione europea contro gli scafisti?
L’Onu tarda perché sono state espresse una serie di riserve. Una è quella della Russia, che non vuole essere bypassata come accadde nel 2011 quando con la motivazione di salvare Bengasi è stato fatto fuori Gheddafi. Quindi fino a quando non c’è un linguaggio preciso che assicuri alla Russia chi, dove, come, quando vuole fare questa operazione, non si muove nulla. Il piano presentato poi è troppo ambiguo, non si capisce cosa si deve fare e per quanto tempo. Tutta questa operazione a mio modesto avviso non va da nessuna parte, almeno non come era stata pensata inizialmente.
E allora come ne usciamo?
Chiunque abbia in mente una soluzione miracolosa, secondo me vende fumo. Credo che questa situazione si trascinerà ancora a lungo. In Libia, per esempio, oltre alle milizie locali è in corso la continuazione della guerra intrasunnita, perché Tobruck rappresenta Egitto, Arabia Saudita ed Emirati mentre Tripoli Qatar e Turchia. Poi la politica è molto fragile e non so se adesso la Turchia vuole ancora continuare la sua precedente politica regionale oppure no. Ma anche quello che sta succedendo in Arabia saudita dove la transizione dopo la morte del re non è affatto così tranquilla come ce l’hanno dipinta. Attenzione, perché le alleanze sono fragili. Penso che oggi stiamo assistendo a una guerra tra di loro, una guerra che noi abbiamo contribuito a far scoppiare dal 2003 con l’Iraq senza sapere bene che fare il giorno dopo.