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Piero Bevilacqua
Elogio della radicalità
28 Giugno 2011
Piero Bevilacqua
Habent sua fata verba. Anche le parole hanno il loro destino...

Habent sua fata verba. Anche le parole hanno il loro destino nel confuso universo del dibattito pubblico. Il termine moderato, ad esempio, è di quelli cui sembra arridere un imperituro favore, continuamente rinnovato, anche quando esso appare sostanzialmente falsificato dalla realtà dei fatti. Così può accadere che, per spiegare la vittoria di Giuliano Pisapia a Milano, gli si attribuisca un sostanziale moderatismo, confliggente con l'area di sinistra che lo ha candidato. Un caso in cui appare esemplarmente la confusione concettuale e semantica che domina spesso il dibattito corrente. Si scambia la mitezza dei modi della persona con il suo programma politico. A Milano, casomai è stato battuto, già alle primarie, il debole progetto moderato avanzato dal PD, destinato a probabile insuccesso.

Ma perché il termine moderato gode di tanto pubblico favore? Esso incassa abusivamente i meriti indubbi della virtù morale che definisce in origine. La moderazione – dal latino modus, misura, medietà – è una encomiabile proprietà dell'uomo saggio e mite, che rifugge dagli eccessi. Un ideale di umanità che la civiltà romana mise in cima alla sua gerarchia di valori. Ma il passaggio dalla morale dell'uomo alla lotta politica e alla strategia dei partiti non sempre lascia inalterata quella eccellente virtù. In Italia, ad esempio, possono verificarsi imbarazzanti paradossi. Il PDL ha sempre preteso di essere un partito moderato. Eppure esiste oggi, sulla scena pubblica italiana, un personaggio più smodato, intemperante, eccessivo, disordinato di Berlusconi?

Perché il moderatismo politico oggi non è una virtù, ma, al contrario, la conclamata perversione di una politica riformatrice? A renderla tale sono fenomeni vari e complessi, riassumibili nella trasformazione subita dai partiti politici. Tutti, infatti – salvo quelli definiti radicali – ricercano oggi il “centro”, come un tempo i cavalieri medievali cercavano il sacro Graal. Essi puntano, cioé, a disporsi in una posizione intermedia fra le classi sociali allo scopo di rappresentare gli interessi moderati che si immaginano dominanti nella società. E' una scelta che mira dritta al successo elettorale e che non ha nessun progetto di trasformazione della società. I “moderati” assumono le gerarchie esistenti, i rapporti di forza dati non come il terreno di un progetto di trasformazione, ma come un principio di realtà. Si parte dallo status quo e dal potere su cui si regge, per rappresentarlo con messaggi politici e per svolgere un 'opera di mediazione e di raccordo con le più varie figure sociali, pensate come elettori, più che come articolazioni di una gerarchia di classi. Gli esponenti del moderatismo sono, dunque, gli agenti di un nuovo «mercato della politica», impegnati a vendere messaggi in cambio di consenso per la propria riproduzione di ceto. Per la verità il moderatismo – che non è nato ieri – non sempre ha svolto un ruolo così apertamente parassitario. La Democrazia Cristiana, ad esempio, tra gli anni '50 e '70, ha realizzato una politica moderata, che ha assorbito e neutralizzato vasti settori reazionari ed eversivi, presenti nella società italiana , imponendo, talora, forme contenute ma efficaci di modernizzazione capitalistica. Ma oggi ? Sotto il profilo culturale il moderatismo rappresenta la perpetuazione di un conformismo ideologico fra i più vasti e totalitari che l'umanità abbia conosciuto. Esso si fonda interamente sul “senso comune” neoliberista, un insieme di convinzioni dottrinarie fra le più estremiste della nostra epoca. Promuove, infatti, il sostegno incondizionato alla crescita economica, immaginata come il motore da cui discendono poi a cascata, per virtù del mercato, tutti i vantaggi distribuibili tra i vari ceti sociali. Ma è ancora così ? O non è diventata nel frattempo la crescita una fonte, per nulla moderata, di distruzione, sia sociale che ambientale? Basta un rapido sguardo storico per accorgersene. Forse che non è cresciuta l'economia USA negli ultimi 30 anni? Eppure gli americani hanno visto aumentare l'intensità e la durata della loro giornata di lavoro. In tale ambito sono ritornati indietro di quasi un secolo. Mentre l'insieme delle relazioni umane tendono, per dirla con Bauman, a liquefarsi. Non è cresciuta l'economia europea nello stesso periodo? Eppure la disoccupazione, già prima della crisi, è aumentata, solo in parte contenuta dal dilagare del lavoro a tempo determinato. Una intera generazione di giovani, in diversa misura da Paese a Paese, è stata gettata nel limbo dell' incertezza e della precarietà. Sono nati nuovi poveri, la disuguaglianza ha raggiunto picchi da antico regime, è dilagata l'infelicità sociale. E che cosa ha di moderato una crescita economica che rende sempre meno vivibili le nostre città, che viene distruggendo le risorse naturali a un ritmo insostenibile, che sta modificando il clima, che minaccia la possibilità di vita di intere regioni e popoli della terra nei prossimi decenni?

Il termine radicale non ha fortuna, perché esso è – nel linguaggio corrente – sinonimo di estremo. E dunque estremista, che oggi, in politica, è peggio di un insulto. Eppure, il pensiero teorico della sinistra aveva da tempo provveduto a disinnescare l'equivoco. E' ancora permesso citare Lenin ? Qualcuno ricorda almeno il titolo di Estremismo malattia infantile del comunismo ? Ma è stato Marx a insegnarci che radicale significa «andare alla radice delle cose», affondare lo sguardo in profondità, nei meccanismi costituitivi dei processi materiali: e quindi compiere un disvelamento dei fatti sociali occultati dalle idee ricevute, dal conformismo, dal belletto ideologico dell'industria culturale. Scorgere la distruttività fondativa del capitalismo. Giacché mai come oggi è stata tanto vera l'affermazione, dello stesso Marx, secondo cui «le idee dominanti sono le idee delle classi dominanti»

Dunque, la politica che non voglia essere moderata, ma che ha l'ambizione di incidere negli equilibri sociali con modalità riformatrice, ha l'obbligo di una lettura radicale del capitalismo del nostro tempo, deve essere consapevole della sfida che ad essa pone il gigantesco “fallimento del mercato” ereditato dal trentennio neoliberista. Appare oggi evidente che essa può avere successo se si impegna a risalire la china di una sconfitta storica, di rapporti di forza impervi. Altrimenti soccomberà alla logica moderata della mera gestione dell'esistente. E come può farlo ? Come si può, ad esempio, in Italia – dove il 10% delle famiglie detiene quasi la metà della ricchezza – ridare equità alla distribuzione dei redditi? Come si può rimettere in piedi la nostra Università, dare un futuro alla ricerca e alla gioventù studiosa senza generosi investimenti? E' evidente che occorre sconfiggere interessi potenti e consolidati. E il tentativo può avere successo solo se sostenuto dalla forza di una mobilitazione conflittuale di inusuale ampiezza. Ma questa non è una invocazione di fede.

La società italiana, tanto per restare al nostro Paese, ribolle di conflitti. Spiace dirlo, ma nell'analisi dei risultati elettorali recenti pochi commentatori si sono ricordati delle lotte che da due anni occupano la scena pubblica nazionale. Gli insegnanti della scuola e le famiglie , gli studenti, i precari della ricerca, gli operai delle fabbriche in crisi, la FIOM e la CGIL, gli extracomunitari resi schiavi nelle nostre campagne, le popolazioni minacciate dai rifiuti o da impianti inquinanti, il “popolo viola”, le varie associazioni in difesa della Costituzione, i centri sociali e , finalmente, le donne: tutti hanno protestato. Qualcuno si è chiesto quale nuova immagine dell'Italia, delle sue condizioni reali, al di là delle finzioni televisive, hanno tramesso questi movimenti a tutti gli italiani? Quale collettiva critica dell'esistente hanno promosso ? Essi rappresentano i portatori di bisogni avanzati, l'energia del conflitto, una inedita creatività, le nuove culture e le forme inedite della loro comunicazione e diffusione. Una politica radicale comprende che le trasformazioni non si conseguono tramite accordi tra capipartito, per abborracciare qualche traballante governo. La possibilità di una modificazione profonda della condizione italiana passa attraverso l'unificazione entro un progetto comune di società di questa moltitudine di voci e di bisogni. Ed essa non va pensata solo come un bacino elettorale, ma deve essere resa protagonista, coinvolta in un processo partecipativo senza precedenti alla lotta politica. Trasformazione grazie a un di più di democrazia. E' un compito di grande difficoltà. Ma qui e solo qui sta la nuova frontiera della politica per la sinistra del nostro Paese.

www.amigi.org. Questo articolo è inviato contemporaneamenta al manifesto

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