Il manifesto, 31 maggio 2015
Dopo un anno di governo renziano, vengono messe alla prova le scelte istituzionali, le riforme del lavoro e della scuola, le battaglie interne al Pd. Per il segretario-presidente è il primo vero banco di prova per confermare la sua doppia leadership. Nel Paese e nel partito. Lui lo sa bene, anche se negli ultimi giorni ha giocato al ribasso, prima indicando come obiettivo la vittoria di sei regioni su sette, poi scendendo all’Italia-Germania 4 a 3, infine sminuendo il peso nazionale del voto amministrativo.
Per la destra la partita non è solo interna a Forza Italia (gli attacchi di Fitto a Berlusconi, la perdita di consenso, il crollo d’immagine segnano la caduta del vecchio impero di casa Arcore), ma soprattutto nello scontro che si delinea tra le diverse forze in campo, dove al momento prevale mediaticamente la violenza fascio-leghista di Salvini.
Accanto a questa tripla resa dei conti, gioca una partita a sé il Movimento 5 Stelle, che dopo i “felpati” passi indietro di Grillo sembra avviato su un percorso politico meno isolazionista, più orientato a cogliere le occasioni di confronto e di battaglia parlamentare con le altre opposizioni. Negli ultimi mesi hanno segnato dei punti a loro vantaggio con una presenza parlamentare anche propositiva, come è successo nella legge sugli eco-reati.
C’è una partita poi altrettanto importante che coinvolge le forze, i movimenti, le persone della sinistra che cercano di ricostruire un consenso, di alimentare la partecipazione nelle realtà locali anche confortati dai recenti risultati elettorali spagnoli. E in questa prospettiva si muove quella parte della minoranza del Pd che al momento cammina in ordine sparso. Tuttavia sia in Liguria (con Pastorino), che in Toscana (con Fattori), che nelle Marche e in Campania (con Mentrasti e Vozza), [sia nel Veneto, con Di Lucia Coletti- n.d.r.]che altrove con le liste della sinistra, c’è una occasione importante per lasciare il segno.
Oltre gli aspetti politici generali, è in primo piano la questione squisitamente amministrativa perché le regioni rappresentano il luogo più esposto al malgoverno e al malaffare. Non a caso ha assunto rilevanza, perfino eccessiva, la presentazione dei 16 candidati «impresentabili». Proprio nei territori si registra con forza il malcontento dei cittadini (come è accaduto in Emilia Romagna) che usano l’arma più dirompente per i partiti: astenersi dal voto. La forza delle democrazie si registra proprio su questo aspetto. Che Renzi snobba e non tiene in alcun conto. Ma qui si misura la protervia di chi ci governa e proprio per questo bisognerebbe andare a votare: per punire la sua arroganza.
Democrack. «Il voto non è un test su di me». Renzi se ne frega del silenzio elettorale e straparla da Trento. Dal voto dipende la stabilità dell'esecutivo e la deflagrazione del Pd. Lui si dichiara «ottimista». E invece teme di brutto Liguria e Campania. Il Pd colabrodo nei territori. E dopo il risultato scatterà la resa dei conti. Per il premier l’unico vero avversario è l’astensionismo
«Ottimista». Figurarsi se alla vigilia del voto con cui si gioca la dua duplice faccia di presidente del consiglio e segretario del Pd, Matteo Renzi si faccia sfuggire l’occasione di dichiararsi ottimista. In realtà i segnali che arrivano dalle regioni non sono smaglianti. L’aria è cambiata, dopo la prima fase della corsa elettorale. E c’è da capire l’effetto che farà nelle urne la guerra civile esplosa nel Pd con la pubblicazione della lista dei 16 «impresentabili» da parte della commissione antimafia. Fra loro lo stesso candidato presidente del Pd in Campania Enzo De Luca. Un assist insperato per i 5 stelle che, dopo aver accusato Rosy Bindi di fare accordi con la destra per proteggere il suo partito adesso le esprimono solidarietà. Ma è un abbraccio mortale, agli occhi dei renziani.
Così Renzi prova a ridimensionare la portata del voto e, dopo tanta baldanza, ora nega che sia un test su di lui: «Francamente no. Questa può essere stata una lettura che si è data sulle elezioni europee, lettura che anche in quel caso non condividevo. Ma le elezioni locali servono per le elezioni locali. Non c’è nessuna conseguenza». Ma è solo un tentativo di mettere le mani avanti. Il voto di oggi porta alle urne 23 milioni di italiani. Sarà un vero test sul governo nazionale, più credibile di molti sondaggi.
Per questo ieri ha fatto propaganda fino all’ultimo. Dal Festival dell’economia di Trento, dov’era ospite con il collega francese Manuel Valls, ha cercato di accodarsi agli eurocritici vincenti di Spagna e Polonia: «Il futuro dell’economia parlerà italiano e francese, ma non tedesco», ha assicurato, e via con la promessa di fare «casino» a Bruxelles, e «con una determinazione che non immaginate». E se «in Polonia hanno vinto i nazionalisti, in Spagna non è chiaro cosa potrà accadere, la Grecia sta nelle condizioni che sappiamo, il Regno Unito riflette sull’Europa», noi italiani dobbiamo stare sereni che in Italia si apre una stagione «fantastica». Segue propaganda su jobs act, tasse, presunti miglioramenti delle condizioni dei lavoratori.
Il presidente cerca di motivare i suoi elettori, e se ne infischia del silenzio elettorale. Anche perché l’astensionismo rischia di essere l’unico vero sfidante in campo. Quello che ottiene per ora è la furia degli avversari: il forzista Brunetta chiede alla procura di Trento di intervenire perché «la rottura del silenzio elettorale con manifestazioni dirette o indirette di propaganda è punito fino a un anno di carcere». Il deputato M5S Fraccaro annuncia un esposto. Da sinistra anche Civati e Fratoianni attaccano: «Prima di lui solo Berlusconi, alla vigilia delle elezioni politiche del 2013, violò il silenzio. Ma almeno per un giorno può evitare di parlare?». È l’accusa di berlusconismo, forse anche un auspicio: perché quella volta il giorno dopo Berlusconi perse.