Tutti i nomi (per ora) della rete del potere occulto che avvolge quanto resta della democrazia italiana.
L'Espresso online, 23 ottobre 2014Luca Lotti è “lampadina”, il sottosegretario dal carattere fumantino, considerato del terzetto quello più difficile da avvicinare. Marco Carrai è l’imprenditore immerso nei suoi affari, ma più disponibile ad ascoltare lamentele e richieste. L’avvocato Alberto Bianchi è lo “zio saggio”, il mediatore per eccellenza, colui che sa ammorbidire i dissidi e trovare la quadra. Insieme Luca, Marco e Alberto formano quella che deputati e brasseur d’affari chiamano “la trinità”, il gruppo scelto a cui Matteo Renzi ha affidato la creazione di un nuovo sistema di potere che, all’ombra di Palazzo Chigi, deve gestire nomine pubbliche, dossier delicatissimi e interessi economici del Paese.
Negli ultimi mesi la rete di relazioni della trimurti si sta espandendo come una supernova, tanto che la supremazia della vecchia “ditta” (così veniva chiamato il sodalizio tra Gianni Letta e Luigi Bisignani, che ha patteggiato un anno e sette mesi per associazione a delinquere nell’ambito dell’inchiesta sulla P4) è ormai un lontano ricordo: la rottamazione della coppia che ha amministrato la cosa pubblica durante il regno di Silvio Berlusconi è (quasi) terminata. Così da febbraio lobbisti, consulenti d’azienda e battitori liberi si affannano per salire sul carro giusto. Telefonate, appuntamenti nei bar del centro storico di Roma, pressioni sui parlamentari di riferimento: entrare fin d’ora nelle grazie dei decisori è fondamentale, visto che chi resta fuori dai giochi mette a rischio non solo gli interessi della sua azienda, ma anche potere personale e lo stipendio.
Gli uomini neri
Nella vulgata comune il lobbista è ancora sinonimo di intrallazzo. L’iconografia lo dipinge come un maneggione in blazer, come l’uomo nero che smista mazzette per velocizzare una pratica o spingere un emendamento. La cronaca giudiziaria non ha migliorato la loro “reputation”: la seconda Tangentopoli, la P4, gli scandali che stanno martoriando l’Eni e la Finmeccanica, i traffichini alla Valter Lavitola, le tangenti del Mose, tutto ha contribuito a rilanciare l’assioma “lobbista uguale faccendiere”. Un luogo comune che danneggia i professionisti degli affari istituzionali, che spesso e volentieri non solo difendono interessi legittimi (come fanno associazioni di categoria e sindacati), ma servirebbero al legislatore per avere dati e informazioni corrette su business cruciali. Non è un caso che la categoria, a Washington come a Bruxelles, sia da lustri rispettata e regolamentata.
L’Italia, anche in questo campo, è molto indietro. Sia per colpa del Parlamento, che da trent’anni annuncia una legge sulla trasparenza delle lobby che non ha mai visto la luce, sia perché i protagonisti della persuasione si comportano spesso come trent’anni fa, quando il costruttore Gaetano Caltagirone rivolgeva all’andreottiano Franco Evangelisti l’immortale «A Frà, che te serve?». Non è un caso che il dossieraggio per fregare i colleghi resta pratica assai diffusa, così come l’opacità nei rapporti con la politica e la “black propaganda” attraverso cui si tenta di distruggere l’immagine di un concorrente grazie a giornalisti ingenui o compiacenti.
La Trinità
Piccoli Letta crescono
L'epurazione
L’epurazione parte a maggio. Cadono come birilli Stefano Lucchini, ras all’Eni da sempre fedele a Bisignani, e Leonardo Bellodi, l’uomo ombra di Paolo Scaroni, esperto di missioni a cavallo tra business e intelligence. Oggi Lucchini ha già trovato un nuovo ufficio a Banca Intesa, mentre sembra che Bellodi voglia aprire - insieme a Scaroni e l’ex ad di Siram Giuseppe Gotti - una sede italiana di un importante fondo di investimento Usa. Anche Gianluca Comin, ex capo delle relazioni istituzionali dell’Enel e ganglio cruciale del vecchio sistema, dopo aver perso la poltrona si è buttato nel privato: oggi ha una scrivania nella sede dello studio legale Orrick, e collabora per la multinazionale dei farmaci Novartis, finita nella bufera per una multa da 92 milioni comminata dall’Antitrust e bisognosa di lobbisti in grado di ridare smalto alla reputazione dell’azienda. Dei vecchi leoni solo Fabio Corsico e Giuliano Frosini possono vantare eccellenti rapporti con il nuovo establishment: il primo, da 10 anni factotum di Francesco Gaetano Caltagirone e manager di punta della Fondazione Crt, è stato messo nel board di Terna dalla Cassa depositi e prestiti; Frosini, un passato da bassoliniano, amico di Enrico Letta e Maurizio Lupi nonché foundraiser per Comunione e Liberazione, ha lasciato Terna per tornare a seguire gli interessi di Lottomatica, ma è stato piazzato dal governo Renzi nel nuovo cda di Trenitalia.
I lobbisti in cerca d’autore, invece, non si contano: se Franco Brescia della Telecom per ora è saldo al suo posto, Marco Forlani (figlio del democristiano Arnaldo) è uscito da Finmeccanica a luglio, mentre Paolo Messa (ex consigliere del ministro Corrado Clini, indagato per una vicenda di corruzione) sta tentando la fortuna bisbigliando suggerimenti al potente Gianni De Gennaro, presidente Finmeccanica ed ex capo della polizia. Costanza Esclapon, contrattualizzata dalla Rai e amica di Lucchini, sta invece difendendo con le unghie il suo capo Luigi Gubitosi dagli attacchi della stampa. Renzi sembra però aver già deciso le sorti del direttore generale di Viale Mazzini, che dovrà cambiare azienda alla scadenza della nomina, prevista per marzo. In pole per il suo posto il “giglio magico” si sta dividendo tra l’ex Mtv Antonio Campo Dall’Orto e il numero uno della compagnia telefonica H3G Vincenzo Novari, per cui tifano Luca Lotti ed Ernesto Carbone.
Chi sale e chi scende
Così la trasparenza è un optional, e il rischio di caos e approssimazione è elevatissimo», racconta il numero due degli affari istituzionali di un’importante impresa di Stato. «Ai tempi di Enrico Letta potevamo coordinarci con l’ambasciatore Armando Varricchio e con il suo consigliere Fabrizio Pagani. Ora, invece c’è un vuoto assoluto»Per la cronaca, Varricchio è stato depotenziato a semplice burocrate, mentre Pagani è stato spedito a via XX Settembre, come capo della segreteria del ministro Pier Carlo Padoan. Era proprio Pagani uno dei commis di Stato più influenti: se ai consiglieri di Stato è stata messa la museruola, nei palazzi contano ancora molto Salvatore Nastasi, ex enfant prodige di Gianni Letta e potentissimo direttore del ministero della Cultura, e Antonio Agostini, un passato nei servizi segreti, ex direttore dei ministri Gelmini e Clini, diventato qualche settimana fa numero uno dell’Isin, l’authority per la sicurezza nucleare.
Il vecchio e il giovane
Ma dei tre campioni di Renzi quello che i lobbisti sognano di agganciare per primi è Luca Lotti. Nato nel 1982, sottosegretario all’editoria a Palazzo Chigi, è delegato a tutti i rapporti informali del premier. Maestro nell’anticipare i desiderata del “principale” di cui esegue gli ordini senza discutere, ha messo il suo zampino in tutte le partite più delicate. Prima le nomine delle società pubbliche (il nuovo capo delle relazioni istituzionali di Poste, Giuseppe Coccon, a Lotti deve moltissimo), poi ha sfilato le deleghe del Cipe al ministero dell’Economia. Se prima i vescovi e i cardinali parlavano con Gianni Letta, ora devono incontrare lui. Dagli uomini d’affari che vogliono avere buone entrature con il governo, invece, Lotti manda due imprenditori di fede renziana come Andrea Conticini e Andrea Bacci. Tra una partita di calcetto alla Cecchignola e un appuntamento sotto la galleria “Alberto Sordi”, c’è solo un obiettivo che “lampadina” non è riuscito ancora a raggiungere: le deleghe ai servizi segreti. Per le barbe finte l’ex consigliere di Montelupo ha un chiod o fisso, e per strappare l’incarico al sottosegretario Marco Minniti farebbe follie. Per ora Renzi gli ha detto di no. Così, con gli 007 dell’Aisi e dell’Aise, Lotti si incontra nei bar dietro Piazza di Pietra.