il manifesto, 23 gennaio 2014
Due soli articoli, lunghissimi. Il relatore che è anche il presidente della prima commissione della camera, il berlusconiano Francesco Paolo Sisto, ha attratto a sé l’attenzione per tutta la giornata. Prima ha mostrato le occhiaie ai giornalisti, frutto ha detto di una notte di lavoro. Poi ha annunciato a più riprese che stava limando gli ultimi commi. Nel frattempo Verdini per Berlusconi e Bressa per Renzi facevano sul serio. Recapitando il testo definitivo con gran ritardo, e costringendo così Sisto a presentarsi in commissione solo alle otto di sera. Con quella che formalmente è la 23esima proposta di legge di riforma del sistema di voto, ma che con buona pace del regolamento è stata immediatamente proposta come testo base (si voterà oggi). Del resto, secondo il presidente Sisto, i tempi per la presentazione degli emendamenti sono cominciati a decorrere prima che fosse noto il testo da emendare. Dopo la pausa del fine settimana si vuole chiudere in due, tre giorni di discussione. Per licenziare la legge per l’aula entro fine gennaio.
Il ritardo di ieri è dovuto alla Lega. Verdini si è ricordato degli alleati troppo tardi. E ha provato a inserire nel testo una modifica per salvarli, visto che nei sondaggi viaggiano abbondantemente sotto il 5%. La soluzione sarebbe stata quella di introdurre una nuova soglia di sbarramento, magari lo stesso 8% già previsto per le forze non coalizzate, da raccogliere in almeno tre regioni (ipotesi che avrebbe tentato anche i centristi che mantengono un consenso concentrato al sud). Il Pd aveva anche detto di sì. È stato il Nuovo centrodestra di Alfano a fermare il «salva Lega» che nel frattempo Bossi aveva giudicato indispensabile. Più che altro per fare un dispetto al nuovo segretario leghista Salvini che, informato del fallimento della trattativa, stava già dichiarando che al Carroccio non servono aiutini.
Nel testo è confermato il conteggio dei seggi su base nazionale e sono confermate le tre soglie di sbarramento: 5% per i partiti coalizzati, 8% per i non coalizzati e 12% per le coalizioni. La soglia per aver diritto al premio di maggioranza del 18% resta fissata al 35%. Altrimenti ballottaggio, e chi vince (vietati apparentamenti) guadagna automaticamente 327 seggi, che è anche più del 51% annunciato (quasi il 52%). La novità è che all’interno della coalizione che supera lo sbarramento (12%), dev’esserci almeno un partito che supera il 5% per concorrere al premio di maggioranza. Secondo l’ultimo sondaggio dell’istituto di fiducia di Berlusconi (Euromedia, due giorni fa) né il centrodestra né il centrosinistra sono in questa condizione. Anche nel caso in cui uno dei due contendenti dovesse afferrare il 35% (Berlusconi sarebbe adesso al 34%) si dovrebbe andare al ballottaggio. Al termine del quale, quindi, anche un partito votato al primo turno solo dal 22% degli elettori (come Forza Italia, sempre secondo il sondaggio Datamedia), esclusi tutti i suoi alleati rimasti sotto la soglia, conquisterebbe tutti per sé il 52% dei seggi. Premio di maggioranza «reale»: 52–32=30%.
Resta ancora da fare il lavoro sulle circoscrizioni, tutte da ridefinire attorno alle 110 provincie e alle dieci città metropolitane. Avranno da tre a sei candidati e almeno la legge esclude le candidature in più circoscrizioni. Ma resta il fatto che con il riparto nazionale il voto di un elettore palermitano alla sua lista, corta quanto si vuole, può far eleggere un candidato veneto della stessa lista, ma a lui sconosciuto. Con il primo voto di stasera, quando sarà adottato come testo base, l’Italicum di Renzi comincia la sua corsa. Lo attende al varco quella decina di deputati del Pd non renziani che in commissione affari costituzionali sono la maggioranza, o quasi, della delegazione del partito. Presenteranno emendamenti per introdurre le preferenze e alzare la quota sopra la quale si ha diritto al premio di maggioranza. Sul primo punto troveranno gli alfaniani, sul secondo i montiani. La corsa è a ostacoli