manifesto e della Repubblica del 4 gennaio 2015
Formule, concetti, metafore di chi ha liberamente scelto di affrontare senza timori reverenziali il tramonto delle categorie della prima modernità, sfidando la sonnacchiosa e dogmatica accademica delle scienze politiche e sociali sul terreno più delicato: quello del «nazionalismo metodologico». Altra espressione «inventata» da Ulrich Beck per combattere quell’erronea semplificazione che costringe nelle opprimenti dimensioni dello Stato-nazione tanto l’analisi dei fenomeni sociali e giuridici, quanto i possibili spazi di azione civica e politica.
Il làscito maggiore del suo insegnamento sta nel radicale rifiuto di ogni pregiudizio nazionalista. Questo è il prisma attraverso il quale Beck ha spiegato la connessione tra le dinamiche della globalizzazione e i loro esplosivi effetti sulla divisione del lavoro, sulle forme di vita individuali e collettive, sul presente e sul futuro del vecchio Continente. Questo approccio è inoltre utile per contrastare la recrudescenza dei movimenti intolleranti e xenofobi dei partiti tradizionalisti, autoritari e nazionalisti (Tan Parties) in un’Europa che diventa sempre più «tedesca», stritolata dai diktat delle politiche di austerità volute dalla Bundesbank. Lo ha denunciato lo stesso Beck in uno dei suoi ultimi saggi (L’Europa tedesca, Laterza, 2013).
La militanza intellettuale, politica e civile di Ulrich Beck è sempre stata dalla parte di un’Europa politica e sociale. Un soggetto che, a suo parere, doveva superare le nefaste eredità «sovraniste» degli Stati-nazione, spesso ridotti a algidi gendarmi dell’ordine pubblico locale, e gli incubi monetaristi di un’Eurozona sinonimo di insicurezza e povertà per le persone. Per questa ragione, dal settembre del 2010, ha aderito alle iniziative dello Spinelli Group nel Parlamento europeo, rilanciando lo spirito federalista continentale che dall’antifascismo di Spinelli, Colorni e Rossi oggi può spingersi sino al punto da ripensare l’Europa politica oltre una dimensione meramente monetaria.
Questa visione sociale dello spazio politico continentale ha permesso a Beck di spiegare l’urgenza di un «reddito di cittadinanza continentale» utile per affrancare le persone dai ricatti del lavoro, o della sua mancanza. La creazione di un simile strumento è inoltre essenziale per garantire l’indipendenza dei cittadini da un Welfare State che sta regredendo a Workfare, cioè ad un sistema di costrizione al lavoro, con scarsa tutela della dignità della persona, né garanzia della sua condizione lavorativa. Per Beck il modello sociale europeo è il frutto di un universalismo concreto, fondato sulla tutela dei diritti sociali intesi come diritti fondamentali di una nuova solidarietà pan-europea. Altrimenti non potrà mai esserci alcuna integrazione politica continentale.
«Dobbiamo finalmente porre all’ordine del giorno queste questioni: come si può condurre una vita sensata anche se non si trova un lavoro? Come saranno possibili la democrazia e la libertà al di là della piena occupazione? Come potranno le persone diventare cittadini consapevoli, senza un lavoro retribuito? Abbiamo bisogno di un reddito di cittadinanza pari a circa 700 euro. Non è una provocazione, ma un’esigenza politica realistica».
Questo scriveva Beck sulle colonne de La Repubblica in due successivi interventi del 3 gennaio 2006 e del 22 marzo 2007. Considerazioni scritte a ridosso degli scontri tra giovani e polizia nelle banlieues francesi in fiamme, mentre cominciava la crisi statunitense dei mutui subprime. Sono passati diversi anni e l’«esigenza politica realistica» di un reddito di base sganciato da una prestazione lavorativa, inteso come strumento di solidarietà, resta lettera morta nell’agenda dei movimenti e delle cittadinanze sempre più impaurite ed è completamente assente in quella delle inadeguate classi politiche e sindacali, nazionali e continentali. Tutto questo mentre milioni di persone rischiano di diventare ostaggi della malavita, nei bassifondi delle metropoli europee, o schiavi indebitati del capitalismo finanziario eletto a unico parametro della «società globale del rischio».
Beck è stato il testimone del lungo quarantennio neo-liberista europeo in cui hanno dominato l’individualismo sociale e il «nazionalismo metodologico». «Spesso la retorica dominante afferma che non “c’è alternativa” agli imperativi dell’austerità» disse in un’intervista a Benedetto Vecchi su Il manifesto del 29 agosto 2013.
In questo atroce immobilismo prospera il Merkiavelli, efficace neologismo da lui stesso coniato per descrivere una politica capace di dettare in Europa l’agenda dell’austerità (anche in una impossibile funzione espansiva) funzionale alla difesa del patto socialdemocratico in Germania. In questa cornice gli Stati-nazione, e gli individui, si ripiegano in se stessi. «L’individualizzazione della diseguaglianza sociale», analizzata quasi trent’anni fa da Beck, oggi fa il paio con le miserie nazionaliste di classi politiche inadeguate e dei nuovi populismi presenti anche nel Parlamento europeo.
Torna quindi di attualità il «bisogno di una critica dell’Unione Europea da un punto di vista europeo e non nazionale», per dirla sempre con Beck. In un intervento sul Guardian del 28 novembre 2011 sostenne che la crisi europea può essere «un’opportunità per la democrazia». A patto di avere la forza, intellettuale e politica, per «abbandonare l’euro-nazionalismo tedesco» e far «emergere una comunità europea di democrazie» dove la «condivisione della sovranità divenga un moltiplicatore di potenza e democrazia».
Queste sono le basi di un federalismo radicale che mette in relazione i bisogni delle persone con gli spazi politici nei quali vivono. Rileggere questi insegnamenti alla luce di una visione solidale della società e dell’Europa attenua il senso di vuoto che lascia la sua morte tra chi continua a non rassegnarsi all’ordine esistente delle cose.
Ulrich Beck, scomparso il 1° gennaio scorso all’età di 70 anni, è stato uno dei maggiori sociologi del nostro tempo. E certamente la sua statura era destinata a crescere ancora, come l’inarrestabile impatto della sua influenza intellettuale. Una figura unica per la sua straordinaria profondità, l’acuta capacità percettiva, l’eccezionale sensibilità ai mutamenti sociali e culturali, l’ineguagliabile originalità del suo pensiero. Per gli studiosi del suo campo è stato una fonte di ispirazione e un fervido richiamo all’azione. Ma il suo impatto intellettuale ha trasceso i limiti del suo ambito professionale. La voce di Ulrich Beck – le sue diagnosi, valutazioni, previsioni e avvertimenti, sono stati ampiamente ascoltati, con viva attenzione.
Assai più che uno studioso ligio ai doveri ristretti di un’attività accademica, per vocazione Beck era la personificazione dell’intellettuale pubblico, in ragione del ruolo e delle posizioni che ha assunto: un modello cui gli studiosi di scienze sociali aspirano ardentemente, anche se a pochi è dato raggiungerlo con tanto vigore, efficacia e dedizione.
È difficile, forse impossibile, immaginare la temperie, il tenore dell’attuale dibattito politico, l’ampiezza e la profondità della nostra consapevolezza collettiva senza i molteplici e vari contributi di Ulrich Beck, la sua insaziabile curiosità nell’esplorare i meandri della vita moderna, la sua capacità di individuare prontamente e mettere a fuoco le sue realtà con osservazioni precise e pregnanti, e la sua predisposizione a quella che gli antichi chiamavano “parresia”: a rendere conto dei risultati delle sue ricerche senza cercare giustificazioni né scendere a compromessi, con libertà, fierezza e candore, attenendosi alla coscienza, giudice supremo dei comportamenti umani e guida sicura nella ricerca di verità dello studioso.
Questa morte prematura ci lascia tutti più poveri.