La Repubblica, 13 maggio 2015 (m.p.r.)
Due milioni di disperati fuggono dalla guerra e dalle persecuzioni, molti tentano la traversata marittima, con naufragi, assalti di pirati, ecatombi. Ben 750.000 trovano accoglienza in una sola nazione. E lì diventano una comunità dinamica, imprenditoriale, perfettamente integrata.
È una storia che potrebbe parlare del Mediterraneo nel 2015. Ma con un lieto fine che forse nessuno oggi osa sognare. Invece è una storia vera. Comincia 40 anni fa con la fuga dei “boat people” dal Vietnam (cacciati dai comunisti, poi dalla guerra con la Cina), e la loro accoglienza qui negli Stati Uniti. La ricostruisce per me una guida d’eccezione, Stephen Briganti, chief executive della Statue of Liberty-Ellis Island Foundation.
In anteprima mi fa visitare il nuovo museo dell’immigrazione che aprirà al pubblico il 20 maggio. Un luogo di eccezionale interesse, non solo storico: una “piattaforma educativa” per capire l’emergenza migrazioni guardandola dal paese che più di ogni altro ha saputo governarla. Briganti parte da un aneddoto personale: «Mio nonno emigrò qui dalla Basilicata nel 1899. Ne abbiamo prove sicure, dalle corrispondenze incrociate tra lui e i familiari. Eppure mi è stato impossibile trovare una traccia del suo passaggio alla dogana. Perché? Con ogni probabilità ha cambiato nome, forse anche nave: un vero clandestino, un immigrato illegale e senza documenti, come moltissimi italiani di quel tempo».
Erano i nostri nonni i “boat people”, i disperati in fuga dalla miseria alla fine dell’Ottocento e ancora fino agli anni Cinquanta. Ellis Island li accoglieva con maniere a dir poco rudi. Quest’isolotto sta a fianco di quello dove c’è la Statua della Libertà, dirimpetto alla punta sud di Manhattan. A partire dal 1892, e fino alla sua chiusura nel 1954, Ellis Island fu trasformato in una “maxi-Lampedusa”, un centro di smistamento degli immigrati. Qui la polizia di frontiera applicava le normative sull’accesso al Sogno Americano. Compresa la quarantena sanitaria nei casi di sospette malattie. O il respingimento con deportazione nei paesi d’origine, se gli immigrati non rientravano nelle categorie autorizzate.
Ellis Island aveva già un museo dell’immigrazione, un’attrazione nota ai turisti italiani, molti dei quali cercano qui le tracce e testimonianze su nonni e bisnonni immigrati viaggiando in terza classe sui transatlantici. Ma il nuovo museo è un’operazione straordinariamente più ambiziosa, e non solo per il salto tecnologico negli strumenti espositivi. «Abbiamo allargato la prospettiva storica - spiega il chief executive Briganti - aggiungendo un prima e un dopo. C’è tutta la storia dell’immigrazione prima del 1892, che include il popolamento originario attraverso il traffico di schiavi o le conquiste coloniali di territori appartenuti al Messico. E c’è il dopo-1954, cioè la storia delle politiche d’immigrazione più recenti. Quelle che costruiscono la fisionomia della nazione americana di oggi».
È difficile trovare un museo che ci interpelli in modo così diretto, parlandoci delle sfide di oggi. Un altro esperto curatore, Michael Schneider, spiega l’operazione che è stata voluta: «Capire l’immigrazione a partire dalle sue cause. Ricostruirla passo per passo, dalle tragedie che scatenano nei paesi d’origine la necessità di partire; l’odissea dei viaggi spesso precari e pericolosi; infine l’ingresso in una nazione straniera attraversandone le frontiere sovrane; e poi il contributo a costruire l’identità nazionale di questa società multietnica ».
È banale e sbagliata l’obiezione con cui spesso gli europei respingono il modello-America. Si suol dire, per zittire ogni confronto, che questa è sempre stata una “nazione d’immigrati” (ergo: l’Europa non può ispirarsi né imparare nulla). Una visita al nuovo Ellis Island rivela una verità ben diversa. Questo è un museo che ha il coraggio di raccontare anche la xenofobia made in Usa, nelle sue versioni più feroci: dal movimento “nativista” al Ku Klux Klan (che non linciava solo i neri ma anche ispanici e asiatici). Qui si vede come la politica dell’immigrazione abbia conosciuto chiusure e arroccamenti razzisti, come il famigerato anti-Chinese Act che nel 1882 innalzò un divieto totale all’immigrazione cinese; poi parzialmente rinnovato con l’Immigration Act del 1924. Si scopre che solo dal 1965 parte una politica di forte innalzamento delle quote nazionali (quell’anno a 290.000) e la strategia che punta al reclutamento di competenze professionali, talenti, specializzazioni che rafforzino l’economia americana.
Il nuovo Ellis Island osa parlare anche di fallimenti. Il più macroscopico, pure questo ricco di lezioni per noi, è la tentata militarizzazione del confine col Messico. Ha inizio nel 1993 sotto un presidente di sinistra, Bill Clinton, con la costruzione del Muro fra San Diego (California) e Tijuana, riciclando materiali bellici della prima guerra del Golfo. Prosegue fino a mobilitare 12.000 agenti delle Border Patrol al confine Sud degli Stati Uniti. Il bilancio che ne tracciano i curatori è impietoso: «È servito solo a dirottare i migranti verso le zone desertiche del confine, abbandonandoli nelle mani dei trafficanti. Peggio ancora, molti sono morti tentando quella traversata nelle zone più impervie. Tra gli effetti collaterali indesiderati: un aumento dei clandestini, perché chi è riuscito a passare il confine non osa più tornare indietro. Abbiamo 11 milioni di clandestini, e la maggioranza vengono dal Messico». Nel frattempo la politica migratoria si è evoluta, con l’aumento della concessione di Green Card (residenza permanente): negli ultimi dieci anni ne sono state rilasciate più di un milione all’anno. E si è semplicifcato il passaggio successivo, alla cittadinanza piena: bastano cinque anni di Green Card, una conoscenza elementare dell’inglese, e un esame sulla Costituzione degli Stati Uniti.