la Repubblica
Guai a considerare il latino una lingua morta. Il primo striscione che gli operai dell’Ilva stringono fra le loro mani recita “Pacta servanda sunt”. E mica latino maccheronico, ma addirittura una perifrastica (passiva) per ricordare che i patti firmati a suo tempo vanno rispettati.
La rabbia di Genova si sveglia all’alba. Alle cinque del mattino sono già in mille dentro la fabbrica di Cornigliano, la stessa che a fine maggio ha ospitato Papa Francesco in vista pastorale, che qui aveva parlato di “dignità del lavoro”. «Eccola la risposta alle parole del Papa, quattromila esuberi e diecimila riassunti con il Jobs Act» spiega Ivan. «Ivan di nome, incazzato di cognome» aggiunge quando i mille dalla fabbrica sono già usciti in strada e iniziano a marciare verso il centro, destinazione finale la Prefettura.
I numeri degli tagli sono minori di quelli di Taranto, ma non la voglia di urlare tutto il proprio no a un piano che qui, a Cornigliano, cancella seicento operai su millecinquecento, il 40% della forza lavoro e, di fatto, azzera l’accordo di programma. Eccolo “il patto”, o meglio “i patti” dello striscione latino. Qui l’accordo di programma si ripete come un mantra, mentre gli operai camminano lenti dal ponente operaio fino al centro borghese della città. Con loro ci sono i camalli del porto, ma anche i vigili del fuoco, e tanti altri.
E poi c’è la chiesa, con i cappellani del lavoro che ogni settimana si chiudono in fabbrica a parlare con gli operai. La linea l’ha data per primo il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova, che ha chiesto di “trattare fino allo strenuo”. Gli operai parlano di lui e delle sue parole. «È uno di noi quando c’è da parlare di lavoro» spiega Luca che si è fermato a bere un caffé con un amico. Davanti a tutti cammina un “Hyster”, gigantesco mezzo meccanico da 65 tonnellate usato per spostare i rotoli d’acciaio che a Cornigliano arrivano da Taranto a Genova via treno o via mare per essere lavorati e trasformati in prodotti finiti.
Un tempo anche qui a Cornigliano si produceva l’acciaio, ma nel 2005 l’altoforno, dopo anni di battaglie fra ambiente e lavoro, è stato chiuso. È allora che è nato l’accordo di programma, un’intesa fra governo, azienda e sindacati che scrivendo la parola fine alla “colata continua” manteneva però i posti di lavoro in attività “a freddo”, di laminazione dell’acciaio. All’epoca il padrone delle ferriere si chiamava Emilio Riva. I conti li faceva ancora con il “lapis”, lui che si era diplomato in ragioneria alle serali e che aveva iniziato nel dopoguerra vendendo rottami. L’Emilio con i lavoratori si scontrava, ma poi li portava in trattoria al Sassello e tornava la pace. In quel 2005 si sancì che nessuno sarebbe più uscito dalla fabbrica, se non di sua volontà.
All’epoca i dipendenti erano 2.200, oggi sono 1.500 e la differenza l’hanno fatta prepensionamenti ed esodi agevolati. Di quei millecinquecento, quattrocento sono in cassa integrazione, ma la speranza era che una nuova proprietà interessata a investire su Cornigliano per aumentare la produzione desse anche a chi era fuori la possibilità di rientrare. Certo, nessuno si aspettava una passeggiata, ma all’annuncio dei 600 esuberi Cornigliano non ha atteso un secondo per far esplodere la sua rabbia. «Più che una lettera, quella di AmInvestCo è una provocazione – spiega Ivano Bosco, segretario della Camera del Lavoro di Genova, sindacalista-operaio che ha iniziato poco più che ragazzo a difendere i suoi colleghi ai bacini di carenaggio del porto – Seicento fuori, tutti gli altri licenziati e riassunti senza scatti d’anzianità e integrativi. Si può considerare una proposta?».
Ora il governo ha dato un colpo di freno, in attesa di un piano più dettagliato, che tenga conto degli accordi stabiliti a suo tempo. Davanti alla Prefettura, più d’uno ricorda di quando, chiuso l’altoforno, Emilio Riva avesse proposto la costruzione di un forno elettrico, per rifare l’acciaio senza più inquinare l’ambiente. Ma non se ne fece nulla.