Oggi si aprono a Durban, in Sud Africa, i lavori della 17a Conferenza delle parti che hanno sottoscritto la Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti del clima (Cop 17), che nel 2012 compirà vent’anni, e la 7a Sessione delle parti che hanno sottoscritto il Protocollo di Kyoto. Il clima fisico tenterà così di strappare ai venti della crisi economica che soffiano sull’Occidente e alla tempesta finanziaria che squassa il Nord l’Europa e, in parte, il Nord America, l’attenzione dei media e, soprattutto, dei governi. Non sarà facile.
Così come sarà molto difficile che, alla chiusura dei lavori, prevista con la cosiddetta “sessione ministeriale” venerdì 9 dicembre, i rappresentanti di 190 e passa Paesi troveranno un qualche accordo significativo per contrastare, con politiche comuni di prevenzione (taglio delle emissioni di gas serra) e di adattamento, i cambiamenti del clima del pianeta.
Due i grandi temi sul tappeto, tra loro peraltro interconnessi. Il primo riguarda la definizione di un reale impegno di contrasto dei cambiamenti climatici giuridicamente vincolante per tutti i Paesi – ricchi, emergenti e poveri – che hanno sottoscritto la Convenzione delle Nazioni Unite. Il secondo riguarda il Protocollo di Kyoto, che impegna i soli paesi di antica industrializzazione, ed è in scadenza nel 2012. Adattarsi ai cambiamenti climatici significa mettere ciascun paese nelle condizioni di rispondere al meglio all’aumento, in atto, della temperatura media del pianeta. Il guaio è che la temperatura non aumenterà in maniera omogenea nelle varie regioni del pianeta e, soprattutto, che il cambiamento ha effetti diversificati. L’adattamento impone una doppia sfida: una tecnica - allestire una costellazione efficace di interventi puntuali - l’altra economica: chi paga il conto (che si aggira intorno ad alcune centinaia di miliardi l’anno)? Mitigare i cambiamenti climatici significa prevenire, per quanto possibile ormai, gli aumenti della temperatura media: ovvero tagliare le emissioni antropiche di gas serra. La Convenzione sui cambiamenti climatici a tutt’oggi non prevede impegni vincolanti. Ma ora che tutti riconoscono la realtà e la gravità del fenomeno, occorre rispondere con urgenza a due domande: chi lo dovrà fare? Come?
Il Protocollo di Kyoto impegna in maniera concreta i Paesi di antica industrializzazione che l’hanno ratificata (anche se non sono previste sanzioni per gli inadempienti): ridurre le emissioni di gas serra di circa il 5% rispetto all’anno di riferimento 1990. A Durban occorrerà sia verificare chi lo ha rispettato e chi no, sia decidere se e come rinnovarlo per i prossimi anni.
Le due classi di decisioni che dovranno essere prese rispettivamente a Cop 17 - accordo globale su mitigazione e adattamento - e a Cmp 7 - rinnovo del Protocollo di Kyoto - sono fortemente interconnesse. Alcuni Paesi che hanno ratificato Kyoto - Giappone, Canada e Russia - hanno già fatto sapere che senza un accordo globale e senza un impegno concreto e vincolante per tutti, in particolare per Stati Uniti e Cina che sono i due massimi produttori di gas serra, non parteciperanno a nessun processo di rinnovo del Protocollo.
La situazione politica è drammatica, ma chiara: o a Durban si troverà una strategia globale oppure la politica di contrasto ai cambiamenti climatici tornerà indietro di vent’anni, a quando la Convenzione sul clima venne proposta a Rio del 1992.
Il quadro scientifico e politico, rispetto a Rio, è cambiato. Venti anni fa i paesi di antica industrializzazione erano ancora i massimi produttori di gas serra. Oggi il 58% delle emissioni avviene a opera di paesi che a Rio venivano definiti in via di sviluppo. Restano le antiche responsabilità - la gran parte dei gas serra di origine antropica accumulati in atmosfera sono stati emessi da Europa, Stati Uniti e Giappone. Ma occorre prendere atto che senza il contributo attivo di Cina, India, Brasile e di un’intera costellazione di paesi a economia emergente le politiche di mitigazione perdono molto del loro significato.
I nodi politici più importanti, dunque, sono tre. Gli Usa, che non hanno ratificato il Protocollo di Kyoto, si lasceranno coinvolgere in un accordo globale? E cosa farà la Cina, che ormai produce più carbonio di tutti ma continua ad avere un tasso di emissioni procapite inferiore a Usa e Europa? E cosa farà l’Europa? Finora è stata il locomotore del lento convoglio dei Paesi che intendono contrastare i cambiamenti climatici. Ma sopravvivrà la sua politica verde alla tempesta finanziaria ed economica che l’ha investita?
La crisi economica incombe su Durban. Molti ritengono che difficilmente l’Amministrazione Obama potrà assumere impegni stringenti e vincolanti, con uno dei due rami del Parlamento in mano ai repubblicani. Altri ritengono che l’Europa - dopo la figuraccia di Cop 15 a Copenaghen, dove fu esclusa dalle decisioni che contano - con la sua attuale debolezza sia ancora più marginale e comunque meno credibile. Forse le uniche speranze restano proprio i paesi a economia emergente: la Cina, il Brasile, la Corea del Sud. Non sono attraversati dalla crisi economica e stanno puntando molto - molto più di Usa ed Europa - sulla "green economy".
Saranno loro ad assumere la leadership della lotta ai cambiamenti climatici in una città, Durban, di un Paese simbolo degli emergenti, il Sud Africa? Vedremo a Durban quanto matura è la “coscienza ecologica degli emergenti”. E in che direzione andrà.
Le opzioni tecniche sono due. La prima è la politica dei vincoli stringenti, sul modello del Protocollo di Kyoto: precise quote di gas serra da abbattere, differenziate per paese. L’altra opzione è quella della "no-binding policy", degli impegni morali non vincolanti, sostenuti unicamente da meccanismi di mercato. È l’opzione del «liberi tutti di fare quel che si vuole e si può». L’unica oggi realistica, sostengono i suoi fautori. A causa della crisi, ma anche della storica ritrosia di Usa e Cina ad accettare vincoli alla propria sovranità e alla propria economia.
L’opzione no-binding, senza vincoli, sarà pure realistica. Ma ha un grande difetto: non offre alcuna certezza che gli obiettivi saranno raggiunti. La storia degli ultimi 20 anni dimostra che in un regime no-binding le emissioni di gas non diminuiscono. Ma crescono allegramente. Senza vincoli, appunto.