Il manifesto, 30 gennaio 2015
Norma Rangeri,
Se fossimo in un altro paese, la candidatura di Luciana Castellina non sarebbe soltanto una testimonianza - a noi molto vicina e cara - ma qualcosa di simbolicamente forte. Resterà però come un omaggio a chi è nel cuore della sinistra italiana.
Tutt’altro rispetto a quanto è successo ieri. Perché dietro la bandiera di Sergio Mattarella, il democristiano perbene, soffiano le trombe della rottura del patto del Nazareno e dell’unità ritrovata del Pd. Riemerge dalla polvere in cui era stato trascinato persino il fantasma del vecchio centrosinistra di bersaniana memoria con Nichi Vendola che, dopo Luciana, sosterrà Mattarella. E tira un sospiro di sollievo la variegata minoranza del Pd mentre davanti alle telecamere brandisce la candidatura del giudice costituzionale come la prova della rottura del patto con Berlusconi. Mattarella ha come spianato divisioni e divergenze.
Si esibisce come controprova il no della squadra di Arcore al politico siciliano, già fiero avversario delle leggi (Mammì, ma anche Gasparri) a favore del monopolista televisivo. E per giunta fermo oppositore dell’entrata di Forza Italia nella famiglia europea del Partito popolare. Un no, quello dell’ex Cavaliere, appena ammorbidito dall’esibito fair play di una gentile telefonata al candidato. E poi manifestato non con un voto contrario ma con la scheda bianca (come per l’elezione di Napolitano).
È anche curioso che in questo torneo quirinalizio si replichi quel che accadde ai tempi di Ciriaco De Mita. Il leader della sinistra democristiana che, come Renzi oggi, era segretario del partito e capo del governo. De Mita fu il regista dell’elezione di Francesco Cossiga: riunì, ancora una volta, governo e presidenza della repubblica sotto il tetto di piazza Del Gesù.
Una replica della storia che, dopo trent’anni, ieri pomeriggio, è tornata improvvisamente d’attualità con una vecchia, storica copertina del manifesto, esibita nell’aula di Montecitorio e in tv dal leghista Calderoli. Quel “Non moriremo democristiani” che campeggiava sulla nostra prima pagina del 1983, riferito al tracollo elettorale della Dc demitiana.
Un titolo che alludeva a «una speranza - scriveva Luigi Pintor - se la sinistra italiana non dilapiderà un risultato a suo favore come mai prima era accaduto». Tra prima e seconda repubblica, quel patrimonio è stato orgogliosamente espulso dal cuore del nuovo Pd renziano e oggi, se il dodicesimo presidente della repubblica sarà Sergio Mattarella, avremo ai vertici del paese, Palazzo Chigi e Quirinale, l’accoppiata di un quarantenne e un settantenne provenienti dalla storia democristiana. E’ un dato di fatto che porta a compimento, anche simbolicamente, quell’opera di rottamazione della radice comunista dallo scenario politico italiano per rinverdire, con spregiudicati innesti, la pianta degasperiana.
Non che il voto unanime dei grandi elettori del Pd per Sergio Mattarella presidente della repubblica, sia un certificato di garanzia contro un altro “Prodicidio”. Tuttavia questa volta la “carica dei 101″ sembra piuttosto improbabile. Renzi ha già il piede schiacciato sull’acceleratore della nuova costruzione mediatica del presidente «l’antimafia, le dimissioni per un ideale, i collegi per i parlamentari, l’abolizione della naja» che signoreggia su giornali e televisioni.
Sfacciatamente sostituita a quella che ci ha bombardato fino a ieri sulla necessità di eleggere un capo dello stato di levatura internazionale, di grandi relazioni nel mondo di economia e finanza. Tanto da spingere per la nomina del nuovo presidente della Repubblica entro il week-end per non urtare la «suscettibilità» dei mercati. A Sergio Mattarella manca almeno la metà delle qualità imprescindibili che dovevano caratterizzare la figura presidenziale. Una evidente presa in giro. Tra le tante a cui ci ha abituato il funambolico capo del governo.
Ma se alla quarta votazione Renzi riuscirà a eleggere Mattarella per il partito di Berlusconi sarà una Caporetto. Dopo aver steso la sua rete di protezione attorno al governo del Pd, assicurando numeri legali in aula, votando la legge elettorale, sostenendo la controriforma costituzionale, dovrà fare buon viso a cattivo gioco, sopportando la vittoria renziana sul Quirinale.
Se le cose andranno come sembra, il capo del governo ne uscirà rafforzato. Tuttavia resterà l’impressione di aver assistito a una partita decisa a tavolino, dalla segreteria di un partito, senza alcun dibattito e confronto interno. E senza passione, coinvolgimento, emozione per gli italiani, perché quanto è accaduto in questi giorni segna ancora di più il distacco tra i partiti e i cittadini.
Ieri in Parlamento è stato un piccolo tripudio per il manifesto. C’è stata la presunta protesta leghista contro gli inciuci renzian-berlusconiani, con Calderoli che issava la nostra prima pagina del 1983, «Non moriremo democristiani», il bel titolo fatto da Luigi Pintor; poi la Boldrini che ha allontanato leghisti e prime pagine, invece avrebbe fatto bene a cacciare i leghisti e a tenere in aula «il manifesto».
Sì, perché di lì a poco i deputati di Sel - e non solo - hanno cominciato, nella prima seduta destinata all’elezione del nuovo presidente della Repubblica, dopo l’uscita di scena del compact-presidente Napolitano, a votare per la nostra Luciana Castellina. Giusto.
Invece di votare scheda bianca, stavolta è stata scheda rossa, una bella bandiera issata per 37 volte. La votazione purtroppo è simbolica, ma c’è poco da scherzare. E poi metti che tra una recita e l’altra qualcuno nel dispositivo sbaglia e allora esce davvero Luciana Castellina? Purtroppo non accadrà come nell’estate del 1978 quando proprio il drappello dei deputati dell’allora Pdup propose il nome fino a quel momento minoritario di Sandro Pertini e alla fine fu una valanga di «Pertini presidente».
Fondatrice con Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Aldo Natoli, Valentino Parlato, Lucio Magri prima dell’esperienza della rivista «Il Manifesto», che fu poi causa della radiazione dal Pci, poi protagonisti della nascita di questo giornale. Lo meriterebbe eccome Luciana Castellina, donna, ex deputata, comunista sempre in prima fila, anche con la parola e la scrittura. Capace di attraversare le stagioni politiche e le capitali del mondo come fosse a casa, cosmopolita prima che la globalizzazione fosse realtà. Con lei il Quirinale sarebbe un avamposto della nuova Europa, una casa aperta, attenta e ospitale verso gli ultimi e i bisogni della società.
Lo meriterebbe davvero, sarebbe l’immagine dell’Italia che ha lottato, che non ha smesso di farlo. Ma che non ha vinto. E allora…