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Tommaso di Francesco
Due personaggi alternativi nella tenzone parlamentare: sogno e realtà
30 Gennaio 2015
Articoli del 2015
Luciana Castellina, Sergio Mattarella: un sogno e una realtà. Un sogno troppo bello per diventare realtà, una realtà meno brutta di quanto si potesse aspettare. Articoli di Norma Rangeri e Tommaso Di Francesco.

Il manifesto, 30 gennaio 2015

SPIANATAMATTARELLA

Norma Rangeri,

Se fos­simo in un altro paese, la can­di­da­tura di Luciana Castel­lina non sarebbe sol­tanto una testi­mo­nianza - a noi molto vicina e cara - ma qual­cosa di sim­bo­li­ca­mente forte. Resterà però come un omag­gio a chi è nel cuore della sini­stra italiana.

Tutt’altro rispetto a quanto è suc­cesso ieri. Per­ché die­tro la ban­diera di Ser­gio Mat­ta­rella, il demo­cri­stiano per­bene, sof­fiano le trombe della rot­tura del patto del Naza­reno e dell’unità ritro­vata del Pd. Rie­merge dalla pol­vere in cui era stato tra­sci­nato per­sino il fan­ta­sma del vec­chio cen­tro­si­ni­stra di ber­sa­niana memo­ria con Nichi Ven­dola che, dopo Luciana, sosterrà Mat­ta­rella. E tira un sospiro di sol­lievo la varie­gata mino­ranza del Pd men­tre davanti alle tele­ca­mere bran­di­sce la can­di­da­tura del giu­dice costi­tu­zio­nale come la prova della rot­tura del patto con Ber­lu­sconi. Mat­ta­rella ha come spia­nato divi­sioni e divergenze.

Si esi­bi­sce come con­tro­prova il no della squa­dra di Arcore al poli­tico sici­liano, già fiero avver­sa­rio delle leggi (Mammì, ma anche Gasparri) a favore del mono­po­li­sta tele­vi­sivo. E per giunta fermo oppo­si­tore dell’entrata di Forza Ita­lia nella fami­glia euro­pea del Par­tito popo­lare. Un no, quello dell’ex Cava­liere, appena ammor­bi­dito dall’esibito fair play di una gen­tile tele­fo­nata al can­di­dato. E poi mani­fe­stato non con un voto con­tra­rio ma con la scheda bianca (come per l’elezione di Napolitano).

È anche curioso che in que­sto tor­neo qui­ri­na­li­zio si repli­chi quel che accadde ai tempi di Ciriaco De Mita. Il lea­der della sini­stra demo­cri­stiana che, come Renzi oggi, era segre­ta­rio del par­tito e capo del governo. De Mita fu il regi­sta dell’elezione di Fran­ce­sco Cos­siga: riunì, ancora una volta, governo e pre­si­denza della repub­blica sotto il tetto di piazza Del Gesù.

Una replica della sto­ria che, dopo trent’anni, ieri pome­rig­gio, è tor­nata improv­vi­sa­mente d’attualità con una vec­chia, sto­rica coper­tina del mani­fe­sto, esi­bita nell’aula di Mon­te­ci­to­rio e in tv dal leghi­sta Cal­de­roli. Quel “Non mori­remo demo­cri­stiani” che cam­peg­giava sulla nostra prima pagina del 1983, rife­rito al tra­collo elet­to­rale della Dc demitiana.

Un titolo che allu­deva a «una spe­ranza - scri­veva Luigi Pin­tor - se la sini­stra ita­liana non dilapiderà un risul­tato a suo favore come mai prima era acca­duto». Tra prima e seconda repub­blica, quel patri­mo­nio è stato orgo­glio­sa­mente espulso dal cuore del nuovo Pd ren­ziano e oggi, se il dodi­ce­simo pre­si­dente della repub­blica sarà Ser­gio Mat­ta­rella, avremo ai ver­tici del paese, Palazzo Chigi e Qui­ri­nale, l’accoppiata di un qua­ran­tenne e un set­tan­tenne pro­ve­nienti dalla sto­ria demo­cri­stiana. E’ un dato di fatto che porta a com­pi­mento, anche sim­bo­li­ca­mente, quell’opera di rot­ta­ma­zione della radice comu­ni­sta dallo sce­na­rio poli­tico ita­liano per rin­ver­dire, con spre­giu­di­cati inne­sti, la pianta degasperiana.

Non che il voto una­nime dei grandi elet­tori del Pd per Ser­gio Mat­ta­rella pre­si­dente della repub­blica, sia un cer­ti­fi­cato di garan­zia con­tro un altro “Pro­di­ci­dio”. Tut­ta­via que­sta volta la “carica dei 101″ sem­bra piut­to­sto impro­ba­bile. Renzi ha già il piede schiac­ciato sull’acceleratore della nuova costru­zione media­tica del pre­si­dente «l’antimafia, le dimis­sioni per un ideale, i col­legi per i par­la­men­tari, l’abolizione della naja» che signo­reg­gia su gior­nali e televisioni.

Sfac­cia­ta­mente sosti­tuita a quella che ci ha bom­bar­dato fino a ieri sulla neces­sità di eleg­gere un capo dello stato di leva­tura inter­na­zio­nale, di grandi rela­zioni nel mondo di eco­no­mia e finanza. Tanto da spin­gere per la nomina del nuovo pre­si­dente della Repub­blica entro il week-end per non urtare la «suscet­ti­bi­lità» dei mer­cati. A Ser­gio Mat­ta­rella manca almeno la metà delle qua­lità impre­scin­di­bili che dove­vano carat­te­riz­zare la figura pre­si­den­ziale. Una evi­dente presa in giro. Tra le tante a cui ci ha abi­tuato il funam­bo­lico capo del governo.

Ma se alla quarta vota­zione Renzi riu­scirà a eleg­gere Mat­ta­rella per il par­tito di Ber­lu­sconi sarà una Capo­retto. Dopo aver steso la sua rete di pro­te­zione attorno al governo del Pd, assi­cu­rando numeri legali in aula, votando la legge elet­to­rale, soste­nendo la con­tro­ri­forma costi­tu­zio­nale, dovrà fare buon viso a cat­tivo gioco, sop­por­tando la vit­to­ria ren­ziana sul Quirinale.

Se le cose andranno come sem­bra, il capo del governo ne uscirà raf­for­zato. Tut­ta­via resterà l’impressione di aver assi­stito a una par­tita decisa a tavo­lino, dalla segre­te­ria di un par­tito, senza alcun dibat­tito e con­fronto interno. E senza pas­sione, coin­vol­gi­mento, emo­zione per gli ita­liani, per­ché quanto è acca­duto in que­sti giorni segna ancora di più il distacco tra i par­titi e i cittadini.



37VOLTE LUCIANA CASTELLINA
SCHEDA ROSSA LA TRIONFERÀ
di Tommaso Di Francesco

Ieri in Par­la­mento è stato un pic­colo tri­pu­dio per il mani­fe­sto. C’è stata la pre­sunta pro­te­sta leghi­sta con­tro gli inciuci renzian-berlusconiani, con Cal­de­roli che issava la nostra prima pagina del 1983, «Non mori­remo demo­cri­stiani», il bel titolo fatto da Luigi Pin­tor; poi la Bol­drini che ha allon­ta­nato leghi­sti e prime pagine, invece avrebbe fatto bene a cac­ciare i leghi­sti e a tenere in aula «il mani­fe­sto».

Sì, per­ché di lì a poco i depu­tati di Sel - e non solo - hanno comin­ciato, nella prima seduta desti­nata all’elezione del nuovo pre­si­dente della Repub­blica, dopo l’uscita di scena del compact-presidente Napo­li­tano, a votare per la nostra Luciana Castel­lina. Giusto.

Invece di votare scheda bianca, sta­volta è stata scheda rossa, una bella ban­diera issata per 37 volte. La vota­zione pur­troppo è sim­bo­lica, ma c’è poco da scher­zare. E poi metti che tra una recita e l’altra qual­cuno nel dispo­si­tivo sba­glia e allora esce dav­vero Luciana Castellina? Pur­troppo non acca­drà come nell’estate del 1978 quando pro­prio il drap­pello dei depu­tati dell’allora Pdup pro­pose il nome fino a quel momento mino­ri­ta­rio di San­dro Per­tini e alla fine fu una valanga di «Per­tini presidente».

Fon­da­trice con Ros­sana Ros­sanda, Luigi Pin­tor, Aldo Natoli, Valen­tino Par­lato, Lucio Magri prima dell’esperienza della rivi­sta «Il Mani­fe­sto», che fu poi causa della radia­zione dal Pci, poi pro­ta­go­ni­sti della nascita di que­sto giornale. Lo meri­te­rebbe eccome Luciana Castel­lina, donna, ex depu­tata, comu­ni­sta sem­pre in prima fila, anche con la parola e la scrit­tura. Capace di attra­ver­sare le sta­gioni poli­ti­che e le capi­tali del mondo come fosse a casa, cosmo­po­lita prima che la glo­ba­liz­za­zione fosse realtà. Con lei il Qui­ri­nale sarebbe un avam­po­sto della nuova Europa, una casa aperta, attenta e ospi­tale verso gli ultimi e i biso­gni della società.

Lo meri­te­rebbe dav­vero, sarebbe l’immagine dell’Italia che ha lot­tato, che non ha smesso di farlo. Ma che non ha vinto. E allora…

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