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Piero Bevilacqua
Due o tre cose che so dei media
18 Febbraio 2013
Piero Bevilacqua
Universale risuona intorno a noi la critica e il biasimo ai partiti politici, alla scadente qualità dei loro linguaggi e delle loro narrazioni. Ma quale contributo di riscatto e di elevazione...

Universale risuona intorno a noi la critica e il biasimo ai partiti politici, alla scadente qualità dei loro linguaggi e delle loro narrazioni. Ma quale contributo di riscatto e di elevazione danno ad essi i mezzi prevalenti attraverso cui i partiti ricevono voce e rappresentazione? Quanto e in che modo la stampa e la TV contribuiscono a rendere evidente la modestia culturale e morale del ceto politico e quanto invece concorrono ad alimentarla finendo col fare, insieme allo stesso mondo politico, sistema? Questione troppo vasta. Anche se qui intendo riferirmi solo alla grande stampa democratica e alla TV di stato, lasciando da parte gli immensi condizionamenti dell'impero mediatico di Berlusconi: ferita sanguinante della democrazia e del clima culturale italiano. Ma il problema può essere offerto alla discussione, nella sua voluta parzialità, affrontando aspetti all'apparenza minori.

Bene, un primo di tali aspetti, laterali e “minori”, riguarda il linguaggio: veicolo potente di messaggi , che trasformano in senso comune, in persuasione generale i dettami espliciti o occulti del potere. Si pensi a vulgate all'apparenza banali. L'uso sempre più diffuso del termine governatore per designare il presidente delle nostre regioni, non è solo un modo con cui tanti giornalisti italiani si gonfiano il petto: il presidente del Molise equiparato al governatore della California. Si fa passare l'idea leghista che il nostro sia uno stato federale. Cosa non solo infondata, ma storicamente irrealizzabile, essendo già il nostro uno stato unitario, che non deve “federarsi” per trovare un'unità che già possiede. Non meno importanti gli anglismi utilizzati al posto delle nostro vocabolario. Spesso di origine neolatina, si immagina ch'essi assumano una patina culturale più elevata allorché vengono deformati dalla lingua inglese. Rammento uno dei lemmi più inflazionati del linguaggio corrente, governance. Eppure quel termine( dal latino gubernare, lett. “reggere il timone”) nella storia della nostra lingua ha finito col significare una delle finalità più alte dell'agire politico: guidare le sorti degli uomini uniti in società. Oggi che la parola ha fatto un bagno nel mondo della finanza e delle imprese, caricandosi di significati economici e manageriali, viene utilizzato come se si fosse accresciuto di significato, non invece reso più specifico e unilaterale. Noi abbandoniamo le nostre parole con la loro densa storia e pensiamo di allargare gli orizzonti utilizzando quelle delle élites al comando, senza comprendere il nuovo marchio di potere che recano. Subiamo così una doppia insolenza: mentre i poteri dominanti manipolano ai loro fini le parole del nostro grande passato, noi le riutilizziamo, deformate, per introiettare ideologie del nuovo ordine che esse veicolano.

Ma le parole del giornalismo nostrano svolgono ben più importanti compiti. Si pensi alla vera e propria costruzione dell'immaginario collettivo cui esse contribuiscono. In questo senso, nel panorama della carta stampata spiccano alcune testate che offrono un condensato di forme linguistiche (poi diluite nel linguaggio della stampa non specialistica)finalizzato a creare universi psicologici di stampo neoliberista. Si prendano gli inserti “Corriere economia” del Corsera o “Affari e finanza” di Repubblica. Qui le titolazioni degli articoli sono un fuoco d'artificio futurista che esalta la velocità, la competizione, le fusioni:« Non si ferma Esaote, anzi aumenta la velocità,« si scatena lo shopping, «corsa alle fusioni. A volte esse mimano quello delle competizioni sportive: « Morandini prepara la staffetta», «L'energia rinnovabile è in corsia di sorpasso». Più spesso vengono curvate in senso bellico e predatorio: «Colao scatena la guerra del “mobile”», «Il Nord Est insorge per non perdere il treno dell'Europa». «Lottomatica alla guerra del Gratta e Vinci». Certo metafore, anche se talora superano il grottesco: «Armi, navi, jeep tutti senza piloti nelle guerre future.» (Affari &Finanza del 1.2. 2010). Siamo quindi esortati a diventare più veloci, individualisti, competitivi, a incarnare la nuova antropologia di questa modernità da pescecani.

Non si comprende, tuttavia, l'efficacia persuasoria di simili titolazioni se non leggendole nella pagina stampata. Con tali titoli gareggiano, infatti, le foto piccole o grandi dei manager, dei capitani d'industria, dei banchieri, che corrono di pagina in pagina, divinità del nuovo Olimpo economico-finanziario. In tale sopramondo ideale ci sono solo capi, soldi, banche, mercati, gadget elettronici,paradiso in terra del nostro “nuovo mondo”. E' come se la ricchezza promanasse dalle mani di questi santi in effige, perfetta metafora del dominio del capitale finanziario, che crea danaro per mezzo di danaro senza passare per l'inferno della fabbrica. E infatti in questo lucente universo parallelo, che scorre sopra la realtà dei mortali, non c'è posto per il lavoro, per gli operai in carne ed ossa.Ma non deve qui sfuggire un aspetto rilevante dei valori veicolati da tale nuovo divismo. Sela ricchezza è frutto delle capacità di comando, dell'energia e dell'astuzia dei singoli, non solo scompare il lavoro sociale come produttore dei beni e servizi, ma viene esaltato l'individuo primeggiante sugli altri quale prototipo antropologico cui modellarsi. Tale divismo imprenditoriale, che in Italia si combina perfettamente con quello calcistico, crea degli idoli a cui sono consentiti livelli oltraggiosi di arricchimento personale, fortuna e successo da ammirare quale frutto di un merito conseguito sul campo. Gli stipendi milionari dei calciatori rendono popolare e legittimata la disuguaglianza, che viene trasferita nel mondo del gioco e del sogno. Così, l'iniquità che lacera il tessuto della società, viene sublimata agli occhi della massa dannata dei mortali, riscattabile solo in un possibile al di là: quel luogo dove il caso, l'astuzia personale, il duro lavoro, qualche fortunata vincita può condurre solo pochi eletti.

Naturalmente non è solo questione di linguaggio. Un problema fondamentale dei nostri media riguarda la realtà rappresentata. Anche qui domina il divismo. Le prime pagine dei grandi quotidiani nazionali sono stracolme delle gigantografie dei leader politici immortalati nella loro gestualità sacrale. Mentre gli articoli sono per lo più il racconto aneddotico delle loro chiacchiere. Certo, la TV non è da meno. I telegiornali, di qualunque rete, mettono in scena, ogni sera, una vera e propria apoteosi del divismo del ceto politico. E così i talk-show, abitati quasi sempre dagli stessi ospiti di riguardo. Non sottovaluto gli squarci di vita del paese reale che essi offrono. E' giusto ricordare che essi hanno interrotto, a partire da Samarcanda di Michele Santoro, un decennio, gli anni '80, di cancellazione della realtà sociale del nostro Paese dai teleschermi. Ma non si può non notare che in tali trasmissioni si mostrano gli operai disoccupati, disperati, sui tetti o sulle gru: quando cioè fanno spettacolo. Mai nella loro normale condizione quotidiana, fatta di viaggi in treni sporchi e affollati, di sveglie all'alba, di lavoro dentro capannoni dove per almeno 8 ore non si vede il cielo e si è assordati dal rumore dei macchinari. E' l'ignoranza di questo mondo di dura fatica quotidiana che fa accettare a tanta opinione pubblica le disposizioni di economisti e governanti sugli orari, le pensioni, i salari di una umanità del tutto sconosciuta ai suoi zelanti medici.

Certo, occorre riconoscere che in questa apparizione costante dei visi dei leader politici sui teleschermi di casa si manifesta un effetto di democratizzazione del potere. Tutti possiamo constatare l'umana modestia di chi sta al comando, spesso l'evidente mediocrità. In passato il potere era largamente invisibile e questo rendeva più insondabile il suo enigma. Ma bisognerebbe capire se ciò non accada anche per il fatto che il potere reale, quello che orchestra i nostri destini collettivi, non sia nel frattempo trasmigrato altrove, lasciando apparire in propria rappresentanza solo dei modesti figuranti.

Ma un'altra grande responsabilità grava sul giornalismo italiano, diretta conseguenza del “servilismo spettacolare” nei confronti del potere politico. Tale subalternità induce a fabbricare una realtà deformata della società italiana. Non solo ingigantisce oltre il dovuto la capacità del ceto politico di governare le cose reali. Ma cancella o lascia in ombra l' operosità e creatività, negli ambiti più disparati della vita civile, degli italiani che non sono divi. Potrei testimoniare di decine di iniziative culturali e politiche – anche di rilievo internazionale - sistematicamente disertate dal giornalismo italiano. Dove c'è puzza di serietà e di cultura i giornalisti italiani si tengono lontani. A meno che non sia prevista la presenza di un leader politico o di qualche divo equivalente. Così gli italiani si specchiano in questa mediocre e rattrappita rappresentazione di sé stessi e del paese intero e non hanno ragioni di ben sperare per il futuro. Per queste vie “indirette” anche la stampa democratica di un paese in declino gioca la sua parte nel risospingerci all'indietro.

Questo articolo è inviato contemporaneamente al manifesto, dove è stato pubblicato il 18 febbraio 2013.

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