Al di là delle interpretazioni formulate nei diversi campi del sapere, una cosa è certa: la campana suona anche per noi. E chi ci governa (per sua scelta) non se ne accorge.
Corriere della Sera, 13 luglio 2015 (m.p.r.)
La Grecia è il teatro. Ma al centro del dramma andato in scena ieri sera in Europa è piuttosto la «questione tedesca». O meglio: lo scontro tra Germania e Francia, tra Nord e Sud, tra formiche e cicale, sul destino dell’euro e dell’Unione stessa. La crisi di Atene ha funzionato da detonatore, e il povero Tsipras, che pensava di aver messo l’Europa con le spalle al muro giocando a poker col referendum, è diventato la cavia di un esperimento cui il suo governo, e forse anche il suo Paese, potrebbero non sopravvivere. Non è solo una battaglia politica. La storia dei tedeschi è cominciata nelle foreste. A differenza degli inglesi, degli italiani o degli stessi greci, che hanno dovuto affrontare il mare, temono più di tutto il rischio; la parola chiave del loro stare assieme è «sicurezza». Hanno inventato apposta una teoria, l’ordo-liberalismo, in cui le regole sono l’assicurazione contro i rischi. È così che l’«economia sociale di mercato» garantisce la protezione dei più deboli. Ma per funzionare ha bisogno di fiducia reciproca. Le tasse devono essere pagate, le norme rispettate, i debiti rimborsati. È impossibile per la signora Merkel, meno che mai con il fiato di Schäuble sul collo, concedere all’estero ciò che è vietato in patria .
I tedeschi non si fidano più della Grecia. E hanno le loro ragioni. Tutto sommato già Papandreou e Samaras avevano fatto mirabolanti programmi poi rimasti sulla carta. Dei sessanta miliardi di privatizzazioni garantiti, ne sono entrati appena un paio nelle casse di Atene. E gli armatori miliardari che fuggono le tasse sono fumo negli occhi per la classe media bavarese, che le paga fino all’ultimo euro. I tedeschi si domandano perché mai l’austerità abbia funzionato in Portogallo, in Irlanda, a Cipro, perfino in Spagna, e non in Grecia, nonostante più di trecento miliardi di prestiti.
La Francia non è solo più tollerante, trova anche una convenienza nella tolleranza, perché la applica innanzitutto a se stessa. Il governo di Hollande naviga da tempo fuori dalla regola del tre per cento. La flessibilità le permette di conservare un ruolo guida che né la sua economia né il suo bilancio consentirebbero. Lo scambio preteso da Mitterrand, sì all’unificazione tedesca in cambio della moneta dei tedeschi, è ancora il prezzo della politica di Parigi. Il guaio è che così la Francia, che già affossò con un referendum la Costituzione europea, è diventata il vero ostacolo a una maggiore integrazione che metta sotto controllo i suoi conti. Eppure solo un’Unione di bilancio, dopo quella monetaria, potrebbe evitare la Grexit, la cacciata della Grecia, senza rischiare la Gerxit, e cioè la secessione della Germania.
Prendiamo il fondo da cinquanta miliardi in cui Berlino vorrebbe che i greci mettessero il loro patrimonio a garanzia delle privatizzazioni. Così è poco meno di un pignoramento. Ma è altrettanto insensato pretendere che i greci possano disporre, senza dare garanzie credibili, di altri ottanta miliardi di prestiti dei contribuenti tedeschi o italiani. La sovranità non si può difendere con i soldi degli altri. E nemmeno la democrazia. Se Merkel volesse usare l’arma impropria di Tsipras, e chiedere in un referendum ai suoi contribuenti di accettare il terzo prestito alla Grecia, il risultato sarebbe scontato, e catastrofico. Bisogna dunque trovare un sistema che garantisca a chi presta di verificare come si spende, per mettere in comune, almeno in parte, il debito e il welfare. La Bce ha potuto abbassare i tassi per tutti, con il cosiddetto «quantitative easing» tutt’altro che gradito ai tedeschi, perché è l’unica agenzia federale dell’Europa. Ma è sola, oltre che unica.
La vera, grande colpa di Angela Merkel è di aver smesso di battersi per l’Unione di bilancio, temendo che sia inattuale o impopolare. Ma noi, che la critichiamo, saremmo pronti ad accettare che la nostra legge di Stabilità si scriva a Bruxelles?
Ecco: nel tentennamento, nella titubanza finora mostrata dal governo Renzi c’è questa incertezza. Non sappiamo se sperare, anno per anno, nella flessibilità, magari sognando di poter sforare anche noi il tre per cento; o se puntare su una nuova governance dell’euro, in cui si possa condividere con i tedeschi non solo la rigidità del bilancio, ma anche la crescita, il welfare, i bond. Di certo è nostro interesse nazionale che la Grecia resti nell’euro. Per ragioni ideali. Ma anche perché, se Atene uscisse, l’Italia non avrebbe più il secondo debito pubblico più alto dell’Europa, ma il primo. E con non uno, ma due partiti antieuropei in lizza per la vittoria elettorale.