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Lodo Meneghetti
Dove è finita l’architettura della città?
17 Dicembre 2007
Lodovico (Lodo) Meneghetti
I "super architetti" internazionalisti presenti dappertutto

I “super-architetti” (definizione di “Repubblica”, 8.11.2007), ovvero gli architetti internazionalisti presenti dappertutto nel mondo con opere di ogni genere, edifici pubblici – musei, auditori, università, stazioni, ponti…, o building privati per uffici e abitazioni (poche) per lo più in forma di grattacielo, parevano immuni da critiche. Chiamati da istituzioni pubbliche e private, da finanzieri e imprenditori per fornire prestigio e rendite mediante costruzioni grandiose o/e fantasiose piuttosto che effettiva soluzione di un problema, detengono un seducente potere individuale volto a segnare il destino di luoghi urbani senza attenzione alcuna ai bisogni sociali prioritari. In Italia i sindaci, non solo delle città maggiori, sembrano contendersi o dividersi le prestazioni di questi speciali progettisti solitamente collegati, o collegabili nel giusto momento, ai consorzi di imprese edili e ai grandi proprietari fondiari. E mai, mai la scelta dell’intervento voluta in comunione dai diversi soggetti in campo ha accettato i vincoli del piano regolatore esistente, o è quantomeno derivata da un’idea di città e organizzazione territoriale dichiarata prima dagli amministratori pubblici.

È superfluo ricordare nuovamente il caso di Milano, peggior esempio più volte discusso in Eddyburg e riassunto esemplarmente da Oreste Pivetta sull’Unità (23 e 28 ottobre). E Firenze? Il sindaco toscano che nel 2005 cerca di copiare il collega milanese perorando la chiamata di architetti stranieri famosi per donare alla città (questo il senso delle sue parole) punti singolari di presunta modernizzazione attraverso forme architettoniche inusitate di certo irriguardose dei tanti problemi irrisolti della città; per esempio il traffico insopportabile o lo sconvolgimento estetico delle strade commerciali. E l’appartata, benché esposta al mare, Savona? Amministratori e speculatori edilizi, davanti alla comunità attonita e forse in maggioranza consenziente, si accordano come uno strumento a suonare l’accettazione di due progetti diversamente firmati – grattacieli sformati e muraglie di palazzi – del tutto avulsi da regole e norme locali: luoghi coinvolti lo storico porticciolo della Magonara e il porto turistico della Torretta.

E quante altre città, regioni e provincie si potrebbero elencare perché sottoposte nel temibile XXI secolo, come in una guerra dei sette anni, alla potenza delle imprese immobiliari e al decisionismo di sindaci e presidenti di regione servile verso le prime anziché servitore del bene sociale? Ma il poderoso intervento edile extra-regole desiderato dai due poteri alleati riesce ad affermarsi, acquisendo anche i titoli per approdare ai giornali e alle riviste, solo grazie alla propensione dei super-architetti ad accettare ogni tipo di incarico professionale senza alcuna incertezza, senza sofferenza, per così dire, riguardo a ciò che sta davanti e dietro allo svolgimento dell’affare; senza alcuna riflessione, poi, verso le immancabili problematicità relative a qualsiasi azione nel vivo della città, ossia della società urbana. Pronti a tutto, si espongono anche al peggior fallo culturale e professionale pur di realizzare una clamorosa testimonianza del proprio divismo, edificare una cosa nulla c’entrante col contesto storico-sociale, dunque spregiativa della città e della comunità. Architettura in definitiva disumana: infatti a nessuno fra autori, esecutori, amministratori e compagnia importa il contenuto. Cosa c’è dietro il vetro? Uomini, macchine, farfalle? Vuoto?

Quali città e territori si salveranno dalla falsificazione della modernità architettonica se persino nello sconosciuto comune di Mola di Bari – già nelle mira di Eddyburg lo scorso anno – i fronti a mare di sud e di nord dovevano essere maltrattati dalle colossali e grattacieliche cubature progettate dall’architetto internazionalista di passaggio? Quali delle poche città ancora dotate di uno scampolo di bellezza d’architettura urbana, vale a dire paesaggio architettonico d’insieme oltre che singolo monumento, se anche Torino dovrà accettare anch’essa obbligatori ma insensati grattacieli non potendo resistere alla necessità del potere finanziario-bancario di rappresentarsi come alto, forte, imponente e prepotente? Perché l’italianissimo progettista del primo gigante a Porta Susa si comporta come fosse autorizzato a trasgredire le buone regole esistenti? Perché ignora un piano regolatore recente? Come può rivendicare una sorta di virtù sacrale assoluta, intoccabile del proprio progetto quando, al contrario, è la città a dover essere interdetta alle azioni promosse all’improvviso senza conoscerne a fondo il corpo e l’anima?

Quei super-architetti possono farne di tutti i colori. Non esistono i critici d’architettura, non vige alcuna autorevole critica paragonabile alla critica d’arte. La dimostrazione di quanto sia vera la frivolezza di certi autori risiede nella incredibile disponibilità ai cambiamenti del progetto riguardo alle forme: solo esse, giacché non si sognano di ridiscutere, poniamo, la volumetria espressione di sfruttamento fondiario speculativo, nemmeno quando spropositata (e lo è sempre per l’intrinseco carattere delle operazioni immobiliari proposte quali alternative a limiti esistenti); o, tantomeno, l’assurdità dell’intervento dal punto di vista urbanistico. Milano, area dell’ex Fiera: i tre progettisti superstar, tra l’altro del tutto estranei alla nozione di contesto così distintiva della scuola milanese di architettura, erano pronti a ridurre appena le altezze dei tre grattacieli su richiesta del sindaco Letizia Moratti rigonfiando altre parti per conservare la cubatura totale. Delle forme definitive non si sa nulla, è probabile che l’edificio sciancato e il pendente lo saranno meno o non lo saranno affatto. La densità fondiaria altissima, essa primario impedimento alla realizzazione di un parco benché piccolo ma non falso come nella menzognera propaganda, è garantita. Sempre a Milano gli edifici previsti nel quartiere Isola (parte dell’operazione immobiliare di Garibaldi-Repubblica) sono cambiati più volte, ma il divieto dell’imprenditore-proprietario di concedere anche un solo centimetro cubo in meno alle proteste degli abitanti è irremovibile. Forse per burlarsi dei mugugnanti, a un certo punto del confronto il rendering di due grattacieli presentava sulla copertura pali e rotori per l’energia eolica. Del resto il divertissementdei rendering relativi al porticciolo della Magonara a Savona è passato da un grattacielo curvo a strapiombo sul mare, una banana di 120 metri, a una specie di tortiglione, come un tubo di plastica semi-rigida tenuto in mano ai due estremi e ruotati in senso opposto così che la parte centrale si deformi stringendosi.

Savona. Seconda proposta di Fuksas

Ci deve essere una qualche sciagurata legge di comportamento nell’impiego del computer per restituire facili immagini in prospettiva di edifici e complessi edilizi. Viviamo in un’epoca della progettazione architettonica in cui troppo spesso, e sempre nel caso delle grandi opere di super-architetti, il progetto di massima è sovvertito. Una volta (e forse ancora oggi presso certi studi organizzati artigianalmente) era elaborazione chiara molto impegnativa per l’autore, già risolutrice delle diverse opzioni, delle contraddizioni e dei ripensamenti, perciò approdava agevolmente al rigoroso progetto esecutivo non demandabile ad altri. Oggi si riduce a figure informatizzate più o meno scintillanti ma generiche, irreali, messe insieme dai mozzi dell’ufficio; per forza prive di principi basilari relativi a proporzioni, destinazioni, funzioni, relazioni con la complessità urbana e la sua storia.

E il progetto esecutivo? Il passaggio non interessa al super-architetto. Varranno le prestazioni di gruppi specialistici abili nei più sofisticati metodi di disegno al computer e nel reperimento delle tecniche “impossibili” atte ad affrontare le forme edili astruse per statica e funzionalità. Gruppi talvolta appartenenti agli atelier professionali del maestro (peraltro un Norman Foster, si narra, è servito da cinquecento dipendenti), oppure impiegati o fatturisti delle imprese di costruzione. Queste, a loro volta, cercheranno di realizzare quelle forme ricorrendo ai più aggiornati espedienti tecnologici. Insomma, cos’è uno qualsiasi degli edifici più insensatamente arditi (per così dire) o il più scompigliato saggio di decostruzionismo? Se non esistesse l’informatica sarebbe una maquette, un oggettino, una scultura, un sopramobile ingrandito cinquecento volte, trasalito a un’architettura priva di visceri, di sangue. Di verità.

Allora in questi giorni vorrei festeggiare: dall’articolo di “Repubblica” citato nella prima riga, titolo “Le grandi opere fanno acqua, vacilla il mito dei super-architetti” (p.31), sappiamo che due dei protagonisti del mercato architettonico mondiale, Gehry e Calatrava, dovranno rispondere a pesanti accuse, denunce al magistrato e richiesta di danni a causa di gravi errori di progettazione ed esecuzione in opere note in tutto il mondo: rispettivamente il nuovo centro Ray and Maria Stata del Massachusetts Institute of Technology e il Palau de les Arts commissionato dalla città di Valencia. Alberto Flores D’Arcais ricorda molti altri casi dello stesso genere. Abbiamo la conferma che l’architettura di moda, come i vestiti le scarpe la biancheria, sembra concepita per la breve durata, scene fragili di uno spettacolo temporaneo, “forme gastronomiche” ha detto qualcuno. Evidentemente i super-architetti (“’star’ come Renzo Piano… Richard Meyer… Arata Isozaki… Daniel Lebeskind…”), noncuranti della solida architettura della realtà, non son fatti della stessa carne di un Brunellesco (benché un sindaco pazzo proprio al maestro del Rinascimento li abbia paragonati); lui che, ci racconta Julius von Schlosser, “sale attivo sulle impalcature” (1929, poi in Xenia, Laterza, Bari 1938, saggi tradotti da Giovanna Federici Ajroldi).

Milano, 14 novembre 2007

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