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Alberto Asor Rosa
Dopo referendum Democrazia, legalità e felicità
19 Giugno 2011
Articoli del 2011
I risultati entusiasmanti lasciano aperto il problema: come si difende la democrazia in Italia contro un governo il legalitario? Il manifesto, 19 giugno 2011

La sonante affermazione del quorum e dei sì nei quattro referendum di domenica scorsa, congiunta ai risultati delle ultime elezioni amministrative, costituisce senza ombra di dubbio la base di quel potenziale passaggio storico, al quale molti in passato avevano guardato e per cui avevano lavorato. In attesa di tornarci su per un'analisi più circostanziata, io mi sentirei di fare questa preliminare osservazione.

Tale affermazione è il frutto di diecimila rivoli diversi, che si sono congiunti quando l'occasione propizia si è presentata. Persino a determinare l'occasione propizia stessa avevano trovato una loro convergenza protagonisti diversi, non sempre in precedenza convergenti. Questa, fra le tante cose che non so o dico male, posso dirla con sufficiente certezza. Presiedo da diversi anni un'organizzazione ambientalista di base, la «Rete dei Comitati per la difesa del territorio», attiva soprattutto in Toscana, ma presente anche altrove. Ebbene, abbiamo combattuto in tale veste battaglie alla morte con le organizzazioni storiche della politica italiana, in particolare il Pd, a livello regionale, provinciale e municipale, per impedire scempi e abusi di ogni natura (ora va un po' meglio).

La stessa cosa si potrebbe dire, in molti casi a miglior ragione, per i Comitati per l'acqua e contro l'energia nucleare. E tuttavia su questo punto determinato le divergenze e persino gli scontri si sono fusi in una scelta unica. Potrebbe essere un buon monito per il futuro: a patto che nessuno si precipiti ora a mettere il cappello sul risultato referendario, come già troppe volte sta accadendo. Il risultato è entusiasmante, ma non è ancora una proposta politica unitaria né tanto meno un progetto di cambiamento. Le condizioni sono state poste dal popolo sovrano; ma per riempirle di contenuti e renderle effettuali e operative bisognerà lavorarci, e parecchio.

Più in generale è la questione della democrazia (criteri di funzionamento, valori, identità, sorprese positive ma anche, non dimentichiamolo, paurose regressioni) che viene in tal modo riproposta. Con opportuna sincronia - che non è difficile immaginare involontaria, ma non priva tuttavia di una sua logica relazione con lo spirito e i bisogni del tempo - è apparsa in questa settimane La felicità della democrazia, un «dialogo» fra Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky (Bari, Laterza, 2011), che, come dicono gli autori, ingenera molti «dubbi» ma definisce anche molte «certezze»: per esempio quella secondo cui è a questa forma di governo e di Stato che va affidato, nel bene e nel male, nell'adesione sincera come nella critica spietata (non è detto che i due atteggiamenti siano totalmente in contrasto fra loro), il destino delle presenti e delle future generazioni, almeno fin quando il nostro sguardo è in grado di spingersi.

Ne ha ragionato su queste colonne con la consueta acutezza Ida Dominijanni (« Democrazia, il nome e la cosa», il manifesto, 25 maggio 2011 ), in un'ampia recensione, di cui condivido tutto, anche le virgole. Io invece trarrò occasione da questo bel libro per alcune osservazioni aggiuntive, spero non del tutto fuori del quadro.

La prima è, direi, di ordine prevalentemente personale. È per una coincidenza, senza dubbio, che a me è accaduto di scrivere e pubblicare un miliardo di anni fa un saggio intitolato La felicità e la politica («Laboratorio politico», 1981; poi in La repubblica immaginaria, Milano, Mondadori, 1988). Questo potrebbe voler dire, mi pare, che il tema ha una lunga storia, strettamente legata, nel nostro paese, con la storia da noi tutt'altro che infrequente, delle crisi della democrazia. Nel 1981, infatti, ossia in tardissima era comunista, appena prima del crollo e dello sfracello del sistema, invocare scandalosamente la sintesi, - meglio, il connubio - fra felicità e politica significava spezzare una lancia contro le perduranti - e fino all'ultimo in quell'ambito prevalenti - tendenze ideologico-virtualistiche. Io ancoravo quell'ipotesi a una nozione di democrazia come «governo dei mediocri» (dei «mediocri», non dei «peggiori», come giustamente precisa Zagrebelsky), ossia di quelle «masse» talvolta operose ma talvolta anche depravate, da cui è sempre più difficile oggi far emergere le «élites» (un altro dei grandi problemi di una democrazia che sia in grado di autoriformarsi). Sicché si potrebbe chiudere questa specie di disgressione, osservando che la parola d'ordine, l'obiettivo, l'aura della felicità, invocati da Mauro e Zagrebelsky, servono a far emergere «individui» dalla «massa» (ma è chiaramente la stessa cosa), ossia, oltre che a trasmettere «benessere» a ricostituire in forma nuova delle «élites» (per esempio, i giovani ci provano in questa fase più di altri, e si capisce perché: ne va della loro sopravvivenza) e dunque a garantire «un governo non mediocre delle mediocrità» («come governare non mediocremente un sistema delle mediocrità»).

La seconda osservazione riguarda il rapporto fra democrazia e legalità, che attraversa ovviamente tutto il «dialogo» di Mauro e Zagrebelsky, ma senza soffermarcisi in modo particolare. È per me del tutto evidente che Silvio Berlusconi, e le forze che rappresentava, e ancora oggi nonostante tutto rappesenta, sono entrati come un corpo estraneo nel meccanismo, già per suo conto precario, della democrazia italiana, agendo catastroficamente sul versante delle regole («legalità») e al tempo stesso cercando di adattare prepotentemente - ma, è questa l'anomalia italiana, con il consenso di maggioranze parlamentari comunque acquisite - i meccanismi istituzionali del sistema («democrazia») alla sua sistematica, permanente, «costituzionale» vocazione all'illegalità.

Si poteva fare di più, le istituzioni, tutte le istituzioni, potevano fare di più per impedire che il Cavaliere continuasse a sguazzare così a lungo nel suo brodo d'illegalità e di corruzione? Sì, io penso di sì, ed è questo uno dei punti su cui varrebbe la pena di tornare a riflettere a mente un poco più distesa: poiché i risultati referendari sono stati felicemente (è proprio il caso di dirlo) acquisiti, ma l'emblema dell'illegalità è ancora al potere, e intende restarci.

Ne potrei concludere che in Italia la battaglia per la democrazia è sempre stata più robusta e vitale della battaglia per la legalità, soprattutto quando la legalità riguarda i potenti. Invece mi limito a chiedere agli esperti, che ancora non hanno risposto, se l'assenza d'iniziativa in questo specifico campo è una conseguenza della mancanza di regole ad hoc oppure di una lassitudine (atavica?) di costumi che lascia passare come trascurabili o inaccostabili fenomeni e comportamenti che altrove in Europa verrebbero invece considerati semplicemente come impensabili (e che infatti, osservati da lì, ci espongono a un dileggio quotidiano al di là dell'immaginabile).

A puro titolo di amplificazione problematica del discorso - e anche a puri fini di divertissement intellettuale - aggiungo che altri paesi europei, passati come noi attraverso esperienze devastanti, più prudentemente di noi hanno pensato bene di mettersi al riparo dai rischi che noi invece corriamo (che abbiamo corso?). Penso alla Germania: più precisamente alla sua Costituzione democratica (ringrazio l'amico Enrico Ganni, tedeschista della Casa editrice Einaudi, per le preziose suggestioni). L'art. 79, comma 3, di tale Costituzione prevede che i primi venti articoli della medesima (i «Grundrecht»: insomma, grosso modo, i nostri «Principi fondamentali») siano immodificabili. Chiaro? Immodificabili: immodificabili da qualsiasi maggioranza parlamentare e in qualsiasi situazione. La Costituzione tedesca è stata messa dunque come in una corazza. Ma non basta. Fra i venti articoli ce n'è uno, forse non a caso proprio l'art. 20, che sembrerebbe fatto proprio al caso nostro (o al caso mio?): in esso, infatti, dopo aver definito la natura fondamentale della Repubblica tedesca («uno Stato federale, democratico e sociale») si enuncia il cosiddetto «diritto di resistenza». «Tutti i Tedeschi hanno diritto di resistere a chiunque tenti di rovesciare questo ordinamento, qualora non vi sia altro rimedio possibile». Chiaro anche questo? «Tutti i Tedeschi», «qualora non vi sia altro rimedio possibile».

Naturalmente non ci si può richiamare alla Costituzione di un altro paese per tutelare la legalità e la democrazia del proprio. E neanche sfuggono gli elementi di rischio potenziale che la norma contiene nei confronti di minoranze o di dissidenti. E però il richiamo ai «Grundrechte» della Costituzione tedesca può consentirci di tornare all'inizio del nostro discorso, e cioè, appunto, alla tutela su tutti i versanti, della nostra democrazia. La domanda è: qual è il limite, dov'è il limite, oltre il quale la «resistenza» all'arbitrio diviene legale, e in quali forme?

La democrazia italiana non è in grado di tollerare che il Governo del Capo illegalitario continui ancora: ogni giorno che passa sprofondiamo di più nella melma. Sarebbe bello - e felice - che a toglierlo rapidamente di mezzo concorressero ora insieme gli strumenti della democrazia rappresentativa e l'esercizio risoluto della legalità repubblicana. Sarebbe in ogni senso una buona «fin de partie».

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