Il manifesto, 8 marzo 2015
UN CORPO FUORI CONTROLLO
di Geraldina Colotti
Diritti. Libertà sessuali e riproduttive, educazione, agibilità politica, il manifesto di Amnesty. Medici senza frontiere mette l’accento sui problemi sanitari delle adolescenti
Il corpo e i diritti, My body: my right. S’intitola così il manifesto diffuso da Amnesty International per la giornata delle donne. Contiene 7 principi e una domanda: chi controlla il tuo corpo? I principi che Amnesty chiede di sottoscrivere attengono alle libertà sessuali e riproduttive, ma anche all’educazione e all’informazione necessarie per compiere scelte consapevoli e agli spazi di agibilità politica per influire sulle leggi e sui decisori. La presenza del punto 2 — «Cercare di abortire — o aiutare qualcuno a farlo — NON ci rende criminali» — la dice lunga sui passi indietro compiuti, anche in Italia, in questo ambito.
La sovranità della donna sul proprio corpo — bandiera insindacabile negli anni che hanno prodotto leggi avanzate e garantiste — è diventata un fortino da difendere da costrizioni economiche e pressioni simboliche dovute al ritorno di familismo e marianesimo. E così, fa riflettere anche il punto 3: «I servizi sanitari di qualità, a costi sostenibili e nel rispetto della riservatezza compreso l’accesso alla contraccezione, non sono un lusso, sono un diritto umano». Parlare di welfare e gratuità dei servizi è diventata quasi una bestemmia.
A 104 anni dall’8 marzo del 1857, quando morirono nell’incendio le operaie in sciopero in una fabbrica tessile di New York, nelle fabbriche ad alto sfruttamento si continua però a morire: è successo in Bangladesh solo 3 anni fa, quando 110 operaie che producevano per la Disney hanno perso la vita in un incendio. Epperò, non ci sono più le comuniste e le socialiste che, guidate da Clara Zetkin, allora dedicarono alle operaie un 8 marzo di lotta e la speranza di un’altra società.
Invece, anche analizzando i dati contenuti nell’ultimo Rapporto di Amnesty sui diritti (edito da Castelvecchi), emerge l’urgenza di coniugare libertà e giustizia sociale, anticorpo indispensabile contro guerre, soprusi e impunità. Medici senza frontiere mette l’accento sui problemi sanitari delle adolescenti e rileva che il 95% delle gravidanze precoci avviene nei paesi in via di sviluppo e che la mortalità materna è la seconda causa di morte tra i 15 e i 19 anni. «In molti paesi — scrive — ragazze e giovani donne in particolare, spesso non ricevono un’educazione sessuale di base né informazioni sulla salute riproduttiva e devono affrontare notevoli barriere per accedere all’assistenza sanitaria. In alcune culture le donne non hanno la possibilità di prendere le proprie decisioni sulla salute».
Certo, il patriarcato viene prima del capitalismo, ma nei paesi in cui le donne hanno accesso ai diritti elementari, prima di tutto al lavoro e all’istruzione, la loro condizione cambia. E laddove hanno più potere — potere di sé e di poter fare — la differenza di genere diventa forza. «Se non fossi stata ministra della Difesa non avrei mai potuto essere eletta presidente», ha detto Michelle Bachelet. La presidente cilena, che in precedenza ha diretto Onu Mujer, a fine febbraio ha organizzato in Cile un incontro internazionale di alto livello dal titolo: «Le donne nel potere e nelle decisioni: costruendo un mondo differente». Bachelet ha presentato i progressi compiuti dal suo governo per sostenere le donne «in particolare le più povere» e per aumentare l’assistenza ai bambini e agli anziani «in modo che questo non pesi più su di loro e possano trovare un lavoro e realizzarsi». Ha illustrato l’indirizzo adottato per modificare leggi e istituzioni. «Certo — ha detto -, il Cile ha eletto per la seconda volta una donna alla presidenza, la nostra presidente del Senato è una donna, la leader dei lavoratori, Barbara Figueroa, è una donna, e varie dirigenti del movimento degli studenti sono donne. Tuttavia, il Cile non è il paradiso per le donne». Infatti, il parlamento è ancora composto all’84% da uomini, e con quella composizione verrà discussa la proposta di legge sull’aborto.
Le cose non vanno certo meglio per le donne di altri continenti. Amnesty segnala che, in Afghanistan, i primi sei mesi del 2014 hanno fatto registrare 4.154 casi di violenza contro le donne. Violenze di genere commesse all’interno delle famiglie, ciò che ha reso impossibile l’azione giudiziaria.Oggi, il popolo curdo dedica l’8 marzo alla rivoluzione delle donne del Rojava e alla resistenza delle Unità di difesa delle donne (Ypj), che in Siria «combattono la loro guerra di Liberazione dall’Isis e difendono anche la nostra libertà». Lo Sciopero globale delle donne lancia invece una petizione internazionale per «Un salario degno per le madri e per altre lavoratrici di cura».
E, in Italia, la Rete Nazionale dei centri anti-violenza (DiRe) affida alla giornata una domanda per il governo Renzi: «Che fine ha fatto Piano Nazionale contro la violenza alle donne annunciato da oltre un anno?».
UN NUOVO MODELLO DI RIVOLTA
di Bia Sarasini
Neppure nel 1977, anno piuttosto turbolento. Allora l’arma fu il gesto femminista, in piazza, le mani unite in alto, nel triangolo che indica il vuoto e la potenza del sesso femminile. («Il gesto femminista», a cura di Ilaria Bussoni e Raffaella Perna, Derive&Approdi). Atto forte, sovversivo. Mi è venuto in mente nel guardare la foto della ragazza che qualche giorno fa è andata in giro da sola per Kabul, coperta da una specie di armatura, indossata sopra gli abiti e comunque con il velo in testa, che disegnava il corpo nudo di una donna. Lei però era sola, in mezzo agli uomini esagitati che l’hanno circondata e semi-aggredita. La donna armata dice qualcosa di nuovo, segnala un cambiamento. La foto è stata scelta con cura, la ragazza non punta l’arma e non alimenta lo stereotipo della bella guerrigliera. L’invito delle donne curde dice: «Organizziamo la resistenza ovunque nel mondo le donne subiscano violenza. Diffondiamo insieme lo spirito di resistenza che ci unisce e ci rafforza contro ogni manifestazione del sistema di dominio patriarcale».
Un invito politico, che non trasporta in Occidente la guerra che viene combattuta dalle donne peshmerga in prima persona, sui campi di battaglia. Una lotta che è entrata con forza nel nostro immaginario da settembre, prima con i combattimenti e poi la successiva liberazione di Kobane. E così sono venuti i reportage, le interviste in tutti i media mainstream, soprattutto i femminili. Senza dubbio le combattenti hanno acceso l’immaginazione, hanno attivato un fuoco latente. Suscitano un’enorme ammirazione, combattono per la libertà loro e delle loro figlie, contro un esercito, quello dell’Isis, per il quale essere donne è una colpa, e fonte di contaminazione, all’interno di un’organizzazione, il Pkk, che ha fatto dell’uguaglianza tra donne e uomini un proprio valore.
Eppure. Come la mettiamo con la non violenza? Con la convinzione femminista che la guerra è una vicenda maschile? L’Isis è un nemico che mette a tacere qualunque dubbio, a proposito di guerra? Sono domande aperte, tutte da affrontare. E inquieta che non ci sia nessuna (e nessuno) che le raccolga. Ma non è il caso di confondere i piani. Non tutte le manifestazioni in Italia dedicate alla lotta delle donne curde mettono direttamente in scena una donna armata. In ogni caso un conto è un popolo in guerra, che difende la propria vita, altra è la situazione qui, in Italia.
Ma bisogna dirlo. In tutte queste manifestazioni si avverte un inedito spirito di rivolta. E non solo tra le più giovani e radicali.
Ci si ribella anche contro l’eterna ripetizione della donna vittima. Non che il femminicidio, o i maltrattamenti, siano un’invenzione. Eppure il martellamento implacabile dei dati, la ripetizione compiaciuta di storie di crudeltà e sopraffazione senza indicare vie d’uscita, è ormai insostenibile. Una generazione che ha scoperto di essere donna – differente dai propri coetanei – nel rifiuto della violenza contro il proprio genere, e ha dato vita alle prime manifestazioni del 25 novembre dieci anni fa, sperimenta ora la necessità di partire da sé, di non aspettare soluzioni da fuori, da altri. E anche la grande fiammata, ormai spenta, di Se non ora quando, la grande manifestazione del 13 febbraio 2011 che ha dato voce a un’enorme rabbia femminile, si è sedimentata. Siamo oltre, anche oltre la delusione.
Le donne sono dappertutto, dice la Libreria delle donne di Milano. È certamente vero Non siamo più in regime di scarsità, e sia pure con tutte le ben note mancanze, non c’è settore della vita pubblica, politica e professionale, in cui non ci siano donne. Che parlano, anche in Italia. La presidente della camera Laura Boldrini ha di nuovo ricordato la necessità di usare bene le parole, di declinarle sempre anche al femminile. Ottima battaglia, le reazioni sgangherate dicono quanto sia necessaria. Ma questo significa che il femminismo gode di buona salute? Che è disponibile all’elaborazione comune una visione politica che permetta di agire in questi tempi di crisi?
Ecco, la crisi. È la crisi che ha rimescolato le carte, che ha obbligato a guardare con occhi diversi le storie di ciascuna e ciascuno. Se la parità di retribuzione tra donne e uomini è un problema aperto, e giustamente rivendicato, che deve dire chi si trova incatenata al meccanismo dei piccoli lavori precari equamente mal retribuiti? Per non dire sottopagati? Lo spirito di rivolta nasce qui, in condizioni materiali di esistenza in cui si è imparato a vedere che differenze ci sono, tra donne e uomini, anche nella precarietà. Che non è una categoria indifferenziata, come in tante avevano rivendicato, scagliandosi contro l’ostinazione di pensarsi differenti delle femministe d’antan. Che il post-patriarcato non prescinde dai corpi e dalle loro differenze. Anzi li mette al lavoro in nuove forme peculiari, per esempio nella maternità surrogata, in un biolavoro schiavizzante che ha molte affinità con lo sfruttamento della natura, della terra. È su questo terreno che vanno ridefinite le relazioni, tra donne e uomini. E le protezioni sociali, quelle che l’austerità europea ha fatto sparire, vanno ripensate sulla base di nuovi modelli, di una nuova pratica della cura, che certo non potranno basarsi sul capofamiglia di un tempo. In un intreccio tra economia, bisogni, relazioni, sentimenti e affetti tutto da ripensare.
Insomma, è una speranza la ribellione alle trappole fabbricate dalla crisi. Fa piazza pulita delle zone fin troppo comode, fin troppo separate, che nel tempo si sono costruite. La crisi non ha pietà. Richiede tutta la nostra capacità di sognare grandi imprese.