Dopo l’ultimo depistaggio servito da Ghaffar, la famiglia Regeni trova il coraggio di parlare e avverte: "Il 5 aprile ci aspettiamo un gesto forte dal governo italiano". Senza sviluppi "mostreremo le immagini di nostro figlio torturato, come altri egiziani". Luigi Manconi: "L’Egitto va dichiarato Paese non sicuro, e l’ambasciatore richiamato"». Il manifesto, 30 marzo 2016
Paola Deffendi ha «bloccato le lacrime» e con lucidità, insieme al marito Claudio Regeni, racconta del figlio e di quella verità che «pressioni» esterne vorrebbero silenziare. Lo fanno rivolgendosi ai media di mezzo mondo convocati nella sala Nassirya del Senato, insieme al presidente della Commissione per i diritti umani Luigi Manconi, alla loro avvocata Alessandra Ballerini e al portavoce di Amnesty international Italia Riccardo Noury.
L’impressione è che confidino ancora nelle istituzioni italiane, in particolare nella procura di Roma, e nella loro capacità di ottenere una reale collaborazione da parte delle autorità cairote, ma che pongano un limite alla paziente ed estenuante attesa. Quando tra pochi giorni gli inquirenti dei due Paesi si incontreranno di nuovo a Roma, «cosa porteranno gli egiziani?», chiede Paola Deffendi. I documenti che il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone aspetta da un paio di mesi – richiesta rinnovata anche dall’avvocata Ballerini e dal collega egiziano, in modo da aumentare la pressione – o una nuova versione-farsa? «Se il 5 aprile sarà una giornata vuota, confidiamo in una risposta forte del nostro Governo. Forte, ma molto forte. È dal 25 gennaio che attendiamo una risposta su Giulio».
Altrimenti, spiegano i Regeni, si spingeranno sulla stessa strada intrapresa da Ilaria Cucchi e mostreranno al mondo le foto del corpo martoriato del giovane ricercatore. «Se non l’abbiamo fatto finora – aggiunge l’avv. Ballerini – è solo perché la mobilitazione e la protesta generale hanno fatto fare un mezzo passo indietro all’Egitto».
Esporranno le foto di Giulio torturato «come un partigiano dai nazifascisti», solo che «lui non era un giornalista e non era una spia, era solo un ragazzo che studiava». «Torturato come un egiziano», massacrato perché «forse le idee di mio figlio non piacevano».
Mostreranno non più quel «bel viso sempre sorridente, con uno sguardo e una postura aperta», come era aperta la sua mente, ma l’immagine dell’obitorio, come è stato «restituito dall’Egitto», di quell’uomo «completamente diverso» sul quale «si era riversato tutto il male del mondo», «e noi ci chiediamo ancora perché». Di quel «viso che era diventato piccolo piccolo», nel quale «l’unica cosa che ho veramente ritrovato di lui, ma proprio l’unica, è stata la punta del naso».
Un particolare che fa impressione, ma non è l’unico. Paola Deffendi racconta infatti che non furono loro ad effettuare il riconoscimento di Giulio all’obitorio del Cairo, al contrario di quanto sostenuto dalle autorità e dai media di entrambi i Paesi finora. Non lo videro prima che i medici egiziani effettuassero l’autopsia, ma solo quando il corpo rientrò a Roma per il secondo esame. «In Egitto ci avevano consigliato di non vederlo, e noi avevamo anche accettato, perché eravamo talmente fuori, credetemi, da pensare che forse sì, era meglio ricordarlo come era prima».
Non solo. La scomparsa di Giulio non venne pubblicizzata, come accade di solito e come avrebbero voluto fare i suoi amici convinti che avrebbero potuto salvarlo con la campagna «Where is Giulio?» lanciata e immediatamente interrotta, perché nel Paese di Al Sisi, “amico” di Matteo Renzi, «ci hanno spiegato – ha ribadito l’avvocata Ballerini – che c’è una procedura informale diversa per i cittadini italiani», anche per fare in modo che un eventuale «fermo si possa trasformare in arresto formale». In sostanza, fin dal primo momento si agì sotto l’impulso di forti pressioni, anche se probabilmente in buona fede, almeno da parte italiana.
Ieri pomeriggio, prima della conferenza stampa, i Regeni hanno proceduto, presso la procura di Roma, al riconoscimento degli oggetti fatti rinvenire in uno dei covi dei presunti “banditi” uccisi dalle forze dell’ordine egiziane e fotografati dal ministero degli Interni di Ghaffar. «Tranne i documenti e forse uno dei due portafogli, nessuno di quegli oggetti che servivano a costruire un’immagine ignobile di Giulio, appartiene a lui», riferisce l’avvocata Ballerini.
D’altronde, anche se Giulio viveva da anni lontano da casa, «avevamo un rapporto strettissimo, profondo, una relazione simile a quella che hanno gli aborigeni a distanza», racconta ancora la madre. Per questo «sappiamo che Giulio non lavorava né ha mai prestato i suoi studi ai servizi segreti», anche «con tutto il rispetto per il ruolo dell’intelligence». «Non aveva un conto corrente da spia e conduceva una vita molto sobria. Sul suo conto c’erano 850 euro, e tanti ce ne sono ancora. Nessun prelievo successivo a quello del 15 gennaio». Il che mostra ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, che la pista della banda che rapinava stranieri non sta in piedi.
È vero invece che «in Egitto nel 2015 ci sono stati 1676 casi di tortura di cui 500 terminati con la morte del torturato, e nei primi due mesi del 2016 sono già 88 le persone torturate di cui 8 morti», riferisce Noury.
E allora, il 5 aprile la famiglia Regeni non si aspetta «proprio la verità» ma neppure un’altra giornata persa. A questo punto non è escluso che la campagna «Verità per Giulio Regeni» sposi la proposta lanciata ieri dal senatore Luigi Manconi, secondo il quale il governo dovrebbe «porre la questione del richiamo – non del ritiro – del nostro ambasciatore per consultazioni. Un gesto non solo simbolico per far comprendere come il nostro Paese considera il caso discriminante per mantenere buone relazioni con il Cairo». «Penso sia necessario considerare la revisione delle relazioni diplomatico-consolari tra i due Paesi – ha aggiunto Manconi – mettendo in conto l’urgenza e l’ineludibilità di altri atti concreti da parte dell’Unità di crisi della Farnesina, che sulla scorta di quanto accaduto dovrebbe dichiarare l’Egitto Paese non sicuro».
Giulio Regeni non c’è più, lui che, come dice in conclusione sua madre, «avrebbe potuto dare una mano al mondo». «Però – aggiunge Paola Deffendi – ora noi siamo qui a parlare di tortura e a parlare di Egitto, e prima non se ne parlava». L’ultima domanda la pone lei: quello di Al Sisi «è un Paese sicuro?».