Il contrabbando è solo il più marginale e pittoresco dei lati oscuri del ciclo della pietra. L’economia estrattiva è notoriamente fondata sullo sfruttamento semigratuito di risorse comuni – non a caso “estrazione” è una metafora ricorrente nelle descrizioni del capitalismo contemporaneo, estesa alla sfera della conoscenza e dei beni immateriali –, ma pone anche problemi di inquinamento delle falde e dell’aria, implica una trasformazione radicale del paesaggio, crea vuoti che possono essere riempiti nei modi più rischiosi e inopportuni. Più in architettura si fa ricorso alla pietra per le sue qualità estetiche e naturali, più si inasprisce la battaglia sugli effetti della sua produzione.
Certo, oramai è impossibile non cogliere la bellezza lunare delle cave dismesse di tufo o di travertino, o non citare progetti spettacolari come lo stadio di Souto de Moura incastonato in un’ex cava a Braga e le prospettive autostradali di Bernard Lassus sulle cave di Crazannes, oppure i tanti parchi e teatri all’aperto, come quello di Fantiano a Grottaglie progettato dallo studio Donati-D’Elia Associati. E anche i più reazionari dovranno riconoscere che per paesaggio non si intende oggi solo quello forgiato dalla Natura matrigna, ma anche quello antropizzato, manipolato dall’uomo e dall’industria. Ma i bei progetti e i siti incantati sono una minoranza rispetto al numero totale delle cave dismesse. E in un paese come l’Italia, dove esistono 5600 cave attive e 16000 fuori uso, sarebbe impensabile ricorrere in modo massiccio a delle soluzioni così sofisticate e individualizzate: sarà meno sexy agli occhi di architetti e paesaggisti, ma per il momento garantire uno standard di puro recupero ambientale (bonifica, riempimento, rinaturalizzazione o ripristino dell’attività agricola) è di gran lunga più urgente.
La qualità estetica del paesaggio di cava dipende dalla posizione geografica, dalla tecnica di estrazione e molto dal tipo di materiale estratto: è più probabile che le coltivazioni di pietre ornamentali offrano una vista migliore. In Italia solo il 6,6% delle cave appartiene a questa categoria. Il resto (80 milioni di metri cubi l’anno) è quasi tutto calcare, sabbia e ghiaia, e segue il ciclo brutale del cemento, che aggredisce colline e pianure, paga canoni di concessione irrisori e rivende a prezzi altissimi: il rapporto tra le due cifre su scala nazionale è 35 milioni contro un miliardo di euro, il 3,5%. In un campo come questo l’estetica e l’ecologia sono tenuti in nessun conto, e nelle regioni dove i controlli sono meno stretti o le leggi meno definite non viene quasi mai fatto il minimo intervento di ripristino ambientale o bonifica. E il fenomeno più grave è la quasi totale assenza di riciclo dei materiali: gli altri paesi Europei riciclano dal 30 al 90% dei materiali inerti, l’Italia butta il 90% in discarica, appesantendo il già emergenziale sistema dei rifiuti.
Tuttavia la differenza tra la Cementir che sventra i monti Tufatini nel Casertano e i cavatori di Carrara o del Veneto è meno rilevante di quello che potrebbe sembrare, e ha a che fare più con lo storytelling che con la sostanza. Le favolette su Michelangelo, sul rapporto equilibrato uomo-pietra, sull’azione paziente e metodica che il lavoro produce sul paesaggio, quasi lo modellasse in scultura, sull’indotto della lavorazione artigianale, coprono una realtà che erode le montagne, taglia le vette, concentra i profitti nelle mani di pochissimi privati, rende pochissimo alle istituzioni pubbliche, e di lavoro ne offre ormai poco e niente, un decimo rispetto agli anni Sessanta. Gli stessi lobbisti del settore ammettono che la pressione del mercato cinese e mediorientale ha sballato i prezzi e convoglia i blocchi grezzi verso porti lontani, dove la lavorazione costa molto meno. Il recente passaggio del 50% della proprietà di una parte consistente delle cave carraresi nelle mani della famiglia Bin Laden mette in chiaro che i soldi finiscono più all’estero che sul territorio, secondo un modello comune a molte piantagioni intensive sudamericane o miniere africane, per intendersi.
Nella selva legislativa che governa le cave italiane, dove ogni regione si regola in un modo diverso e l’ultima legge unitaria risale a un decreto regio del 1927, la battaglia appena conclusa per l’approvazione del Piano paesaggistico della Toscana rappresenta un passaggio fondamentale. Il piano prevede dei vincoli precisi, come il divieto ad aprire nuove cave oltre i 1200 metri per non alterare lo skyline delle Apuane, il raddoppio dei canoni di concessione e l’obbligo di lavorare in loco una certa percentuale di marmo, per incentivare la filiera produttiva. Ha preso politicamente in carico le istanze degli abitanti e dei comitati presenti sul territorio, e per questo motivo è stato violentemente attaccato dalle lobby dell’industria estrattiva.