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Nadia Urbinati
Di molti, non di tutti
26 Maggio 2010
Scritti 2010
In un’intervista al mensile online Una Città (n. 174, maggio 2010) una riflessione su uguaglianza, universalismo, identità, diritti e privilegi. Da non dimenticare

Diritti, cittadinanza, lingua, religione, tutto diventa patrimonio etnico di una maggioranza che decide chi potrà accedere ai diritti e chi no; la novità di una reazione identitaria, comunitaria, che si combina con l’accettazione piena del liberismo economico; in Europa un attacco antilluministico senza precedenti.

In tutta Europa avanzano partiti xenofobi. Da quel che abbiamo capito tu sei molto pessimista e preoccupata. Cosa sta succedendo?

Mi sembra che sia in corso una trasformazione della democrazia in Europa, non solo in Italia. Stiamo assistendo al declino delle filosofie universalistiche, ma, paradossalmente, non in filosofia, bensì in politica. Nelle accademie le filosofie universalistiche sono egemoni. Ci sono certo stati revisioni e adattamenti; tentativi di armonizzare conoscenza locale e universale, multiculturalismo e liberalismo. Per esempio dopo più di vent’anni di fruttuoso dibattito, i comunitari hanno stemperato le loro posizioni particolaristiche. Del resto, non bisogna dimenticare che le filosofie più attraenti, diciamo più in vista, sono quelle legate a visioni universali della natura umana, all’idea di flourishing, di benessere della persona: pensiamo a Marta Nussbaum o Amartya Sen. Quindi c’è un quadro teorico ben strutturato in chiave universalista.

Ma questo riguarda l’accademia, è contenuto nei libri che leggiamo; che leggono pochissime persone. Se usciamo da questo gruppo ristretto e anche specialistico, vediamo uno scenario molto diverso. Nella realtà quotidiana nella quale viviamo, per esempio nell’Occidente europeo, sembra che si stiano verificando cose completamente diverse: l’universalismo è sotto attacco. Qui l’idea di uguali diritti è sotto processo, la stessa idea di integrazione europea come una grande casa comune di liberi e diversi è a rischio, almeno sotto il profilo ideologico. Le regole ci sono ancora, certamente; la moneta unica c’è ancora (benché sotto tiro del capitale finanziario globale), le istituzioni che presidiano i diritti e l’eguaglianza, come la Corte, ci sono ancora; però quello che viene avanti con sistematica tenacia, a livello nazionale degli Stati membri, è un attacco frontale all’universalismo, ai diritti individuali, all’idea di persona scorporata da ogni identità locale. Nel mondo della vita concreta delle nostre società c’è una rinascita del comunitarismo, di un comunitarismo etnico, radicato in presunte tradizioni, pre-politico. L’abbiamo visto nelle ultime elezioni in Ungheria, nella civilissima Olanda, poi in Italia, in Polonia: ci sono fenomeni che vanno esattamente verso una disgregazione delle grandi costruzioni post-nazionali nate in nome di ideali universalistici di pace, di unificazione, di cosmopolitismo, di inclusione. Le nostre Costituzioni, le carte dei diritti, le convenzioni internazionali, l’Unione Europea, sono nate proprio in reazione e per opporsi alle esperienze totalitarie fasciste, che erano e sono profondamente identitarie.

Sì, è vero che, nel caso di quei totalitarismi, più che un’etnia c’era un’ideologia invadente e potentissima che esaltava un ordine nel quale il partito era integrato allo Stato; tuttavia, il totalitarismo, il nazionalismo fascista erano comunque forme anti-illuministe, anti-individualiste (se dell’individualismo abbiamo una visione liberale), senza meno. Le nostre Costituzioni sono nate proprio per proteggerci da queste orrende cose.

Ora, questo che accade sotto i nostri occhi ci dice invece che non siamo per niente protetti, che queste carte costituzionali non ci proteggono abbastanza, perché forse nel frattempo non si è voluto curare il male profondo che c’era all’origine, che sono i fondamenti culturali dell’ideologia identitaria delle democrazie europee; vizi che non si sono mai corretti, mai sciolti, mai emendati. Le nostre democrazie europee sono nate su un elemento identitario. La nazione per tanto tempo ha avuto una funzione democratica, emancipatrice, “una nazione di cittadini”, come dice Habermas, e non di membri. Benissimo. Però in situazioni come questa, forse per ragioni che gli economisti, i sociologi e i pubblicisti dovrebbero analizzare (cioè per cause economiche, di declino del benessere), assistiamo a una rilettura della nazione in chiave etnica.

I diritti diventano un patrimonio etnico?

Esattamente: è l’identificazione della libertà, e quindi dei diritti, col possesso; il possesso del suolo, il possesso di una cultura, il possesso di una lingua, il possesso di una religione. Ora, l’idea di possesso, l’idea, cioè, di essere noi i possessori legittimi di quella che chiamiamo la nostra terra, la nostra nazione, la nostra stessa Costituzione, ci induce a leggere i diritti non come uno strumento che stempera questo istintivo possessivismo che esiste nella nostra storia, ma che invece lo fagocita. Quando si vogliono tener fuori gli immigrati, non li si vuole solo tener fuori fisicamente dai nostri confini (spesso vengono in realtà accettati), ma li si vuole tener fuori anche quando sono dentro, quando vivono sotto le nostre leggi e pagano come noi le tasse; li si vuole escludere dalla cittadinanza attiva, da una democrazia attiva. E perché? Perché, si sente dire sempre più spesso, i diritti appartengono a noi.

Ma stiamo attenti, perché queste nuove forme di pensiero comunitario o anti-illuminista non sono un ritorno indietro. I comunitari etnici di oggi non vogliono ritornare a vivere come si viveva prima della società di mercato, prima della rivoluzione, prima, prima... Non ci pensano nemmeno: questi amano la tecnologia, sono figli del nostro tempo, non rifiutano per niente il liberalismo economico, non rifiutano per niente il mercato. E così si crea un’alleanza anche stretta fra queste forme, che sembrano retrograde, e le forme più avanzate di tecnologia e di cultura politica come il liberalismo, per esempio. Questo connubio non appartiene alle forme di comunitarismo del passato o alla tradizione antilluministica classica, è nuovo.

Si è detto anche che i diritti li si deve meritare…

Sì, e francamente di tutta questa grande manfrina che si è fatta sul merito non se ne può più. Sembra che tu il merito ce l’abbia dalla nascita, che non sia, cioè, qualcosa di costruito, di situato in una società, secondo le capacità di cui la società ha bisogno, dei criteri di valutazione in base all’utile sociale. Oggi c’è l’idea che tu devi meritare le cose che hai senz’altra specificazione. Ma ci sono cose che, meritate o no, le hai, punto e basta. Tu hai dei diritti perché sei un essere umano, non devi meritarteli. Questa è la tradizione del mondo occidentale, dalla Rivoluzione francese in poi, questo è il punto fondamentale della nostra politica, che si chiama Stato costituzionale, Stato di diritto, eccetera. Oggi, invece, con questa idea di nazione non più legata alla legalità, al diritto, ma all’etnia, all’identità culturale, una maggioranza potrà decidere se tu ti meriti o non ti meriti un diritto, se tu potrai appartenere al gruppo che detiene i diritti o no.

E’ una concezione da democrazia “maggioritaristica”, in fondo dispotica, in cui il gruppo di maggioranza decreta se gli altri meritano di accedere alla stessa mensa o se dovranno restar separati.

La stessa religione entra a far parte dei possedimenti…

Ma la religione non è “possedere” una fede o una tradizione, ma “credere”, esercitare una libertà di credere. Dice Tocqueville: “Solo i popoli liberi hanno fede”. Gli altri non hanno fede, perché la fede è uno degli atti più liberi: diversamente c’è ipocrisia, la negazione della fede. C’è libertà di religione non solo per consentire agli altri di esistere, ma per consentire a te di esprimere la tua fede. La fede non è una cosa che possiedi, è un esercizio, un’espressione, una pratica, quindi hai bisogno di un diritto. Invece no, sembra che oggi la fede non sia più fede, ma essenzialmente religione costituita: noi la possediamo, questa è la nostra, gli altri possiedono la loro e devono star fuori, perché altrimenti ce la contaminano. L’idea sempre più diffusa, che fa veramente paura, è quella del possesso dei diritti.

Ma questo possesso, ed è qui il problema secondo me su cui bisognerebbe lavorare molto, non è -lo ripeto- necessariamente in contraddizione con la modernità e le forme estreme di liberalismo. Quando dico forme estreme di liberalismo intendo quelle che insistono molto sul successo, sulla capacità di fare, di costruire, di produrre, di accumulare, che è una capacità che tu hai in un mercato libero, in una società che si basa sullo scambio.

Ricordo un libro molto bello, forse meritevole di rilettura, di Macpherson, Possessive liberalism. Ecco, oggi assistiamo alla coniugazione tra un liberalismo possessivo, basato sull’idea che tu possiedi quello che è l’esito del tuo lavoro, la tua energia, la tua vita, e l’idea di una comunità possessiva a livello comunitario. Questa idea del “possesso” travalica l’economia, per diventare un minimo comune denominatore che può unire tutto. E infatti, fra questi comunitari del possesso, possiamo trovare dei veri e propri fascisti, come in Ungheria, gente che ritorna a dire “il nostro suolo” senza odiare il liberalismo. Questa che sembrava una bestemmia non lo è più.

Ma vedi qualcosa di questo genere anche in Italia?

Certo, l’Italia è un caso esemplare. Si potrebbe pensare che l’alleanza fra Bossi e Berlusconi sia una pura alleanza di governo; io penso invece che la convergenza sia profonda, perché i due movimenti sono legati nella cultura, fondata in entrambi i casi sul possesso.

Nel caso di Bossi, è il possesso del territorio, della lingua, della tradizione, secondo una visione etnica dell’identità, che si crede radicata o si pretende che lo sia, e rispetto alla quale si giudicano gli altri. I leghisti dicono: “la libertà nostra”, quindi una libertà radicata dentro di noi come etnia, non come esseri umani. Dall’altra parte, in una realtà mossa da valori opposti a quelli del radicamento nel suolo (il potere capitalistico è senza patria e non ha alcun radicamento, tanto più se è capitalismo finanziario) ritrovi dominante l’idea del possesso, un possesso strumentalmente funzionale al capitalismo globale: le istituzioni politiche, i diritti, la legge, tutto deve essere funzionale a questo possesso, ed è il possesso che determina il valore.

Berlusconi vuole mutare la Costituzione? Non dobbiamo pensare che sia un pazzo, oppure un vanaglorioso, oppure un tiranno. Forse è tutte queste cose insieme. Ma il suo “volere” ha una logica secondo la quale la dimensione materiale della vita, ovvero i rapporti di potere, di forza, i possessi, gli interessi, devono dettare le leggi e devono plasmare la dimensione istituzionale e normativa.

Quindi quell’idea antica per cui nella democrazia la politica dovesse avere una funzione non strumentale, e anche se, o proprio perché gli interessi si combattono in Parlamento, doveva cercare di mediare; l’idea cioè che ci dovesse essere una dimensione di impersonale separatezza, perché diversamente la legge di natura domina, portando al dominio del più forte; ebbene quell’idea è in declino. Infatti la dimensione impersonale e istituzionale sembra che non abbia più le risorse interne per essere autonoma, e viene quindi fagocitata, presa, rapita, dalla dimensione del possesso, sia esso del territorio, o dell’etnia, oppure del possesso vero, economico. Questo è uno scenario preoccupante, perché significa davvero che la Costituzione legale è il mezzo di quella materiale, affinché quella materiale faccia il suo corso. Quella materiale dice che i rapporti di potere presenti nella società, nell’economia, nella famiglia, invece di essere limitati, stemperati, controllati da un potere superiore, si prendono quel potere superiore e in questo modo si legittimano. Cioè l’abnormal becomes the norm, quello che è anormale si normalizza impossessandosi della legge.

La dimensione della separazione della sfera del possedere o della materialità, da quella della legge o della norma, o della impersonalità, viene così ad erodersi, a scomparire, in alcuni casi. Con nostro grave pericolo, perché è come dire che la vita come è nel presente contingente diventa la norma. Non c’è più una dimensione trascendente, che noi accettiamo e nella quale ci specchiamo come individui. E ritorna buono il detto di De Maistre: “Io non ho mai visto individui, ho visto francesi, tedeschi, italiani...”, cioè ha visto l’immediatezza della specificità, mai l’universalità del “come se”, della norma.

Noi europei, dalla Rivoluzione francese in poi, abbiamo lottato per mantenere questo spazio trascendente e simbolico rappresentato dalle norme (che ha preso il nome di cittadinanza) separato dalla vita empirica concreta; lo abbiamo fatto proprio perché, come individui concreti, con una materialità, una locazione o una biografia specifiche, ci possiamo riflettere in quella dimensione universale e sentire che, oltre alla nostra realtà immediata, ce n’è un’altra alla quale apparteniamo e per mezzo della quale ci possiamo relazionare agli altri, a tutti, sia coloro che parlano la nostra lingua sia gli stranieri. Ecco, questa trascendenza rispetto alla vita, alla quotidianità, all’essere come è, nella dimensione di vita irriflessa, pare cadere.

L’idea che vive nella cultura popolare è che chi vince si impossessa delle regole; se abiti questo territorio, immediatamente stabilisci chi è dentro e chi è fuori, stabilisci che tu sei il territorio, te lo prendi, è tuo. Questo io penso che sia spaventoso…

Il federalismo qui diventa qualcosa di molto cupo…

Ma è esattamente l’opposto di quello che pensava chi apparteneva alla tradizione liberal-socialista, o i federalisti di Ventotene. Loro pensavano al federalismo esattamente come a un modo per unire, in una dimensione superiore alla nazione, popoli diversi. Si partiva dal luogo, perché erano democratici quasi più vicini alla democrazia diretta che a quella rappresentativa; si partiva dalla vita della città o della propria regione, per potere interagire con gli altri e vivere una dimensione quasi cosmopolita, universale. Quindi il federalismo era un modo per ascendere dalla materialità della specifica vita alla dimensione generale, astratta o universale. Oggi avviene l’opposto: il federalismo viene rivendicato per andare giù, per togliersi da questa dimensione, e tornare al particolare della vita, a quella vita del quotidiano, alla vitalità del luogo, dell’etnia, più o meno inventata non importa.

Il paradosso è che anche le categorie dovrebbero essere riscritte, perché questi comunitari del possesso usano le nostre stesse categorie, ma le declinano in tutt’altro modo. La parola federalismo usata da loro non ha nulla a che vedere con quella che usava un illuminista. La parola libertà nemmeno: quando usano la parola libertà, loro intendono “la libertà nostra”.

Questo rovesciamento dei valori, per cui le stesse parole non significano le stesse cose, è parte di questo grosso problema.

Ecco perché chi ha una cultura liberale e democratica si sente senza linguaggio, perché oggi le sue parole non verrebbero capite, verrebbero stravolte. Tu parli dei diritti? “Ah, ma io sono a favore dei diritti...”. Vogliamo la scuola... “Ah, ma io sono a favore delle nostre scuole...”. Tu credi che la Lega, se vince in Emilia-Romagna, voglia togliere le scuole materne pubbliche? “Per carità di Dio, gli asili vanno bene, sono i nostri servizi sociali”... i nostri, i nostri... “Anzi, li vogliamo perfezionare, li vogliamo rendere ancora più belli, purché siano nostri!”.

Quindi si appropriano di parole, conferendo loro un significato diverso, e noi, quelli che hanno idee ancora universaliste, nonostante tutto, facciamo fatica, perché ogni volta dobbiamo specificare, fare uno sforzo doppio, quasi meta-linguistico, perché prima di parlare abbiamo bisogno di premettere: “Io intendo questo” quando uso questa parola. Ma così si perde il senso della comunanza della parola, la grammatica comune si rompe. Se dobbiamo discutere delle parole che usiamo prima di cominciare a parlare, finisce che smettiamo di parlare. Non c’è più accesso alla discussione, perché il linguaggio, la grammatica, la sintassi, cioè le regole della discussione, sono possedute da quel particolare di vita, da quella materialità che è loro. Ripeto, si è erosa quella dimensione astratta, quella dimensione universale nella quale tutti potevano entrare. E’ debilitata la dimensione dell’impersonale, quella di cui parlava Rousseau: la cittadinanza fuori e sopra la nazione, la cittadinanza non nazionalistica, non etnica; l’essere cittadini al di là dell’essere individui privati.

Beh, è in discussione la concezione della democrazia. Anche Habermas è sotto accusa in questo momento. Quando lui comincia a parlare di religione, che è necessaria e utile, e quasi accetta l’osservazione di Böckenförde per cui i paesi liberaldemocratici, o gli Stati liberal democratici, non avendo in sé l’energia per riprodurre i proprio valori, devono andare a prestito dalla religione, per esempio, perché la religione crea solidarietà, mentre la legge no... E allora, tu dici “la colpa è della sinistra”.

Mah, il fatto è che quando sono state scritte le Costituzioni, tra il ‘46 e il ‘48, in Italia, in Germania ecc., i teorici della democrazia, da Aron al nostro Bobbio, avevano il terrore di sostanzializzare i valori politici, proprio perché venivano da una ipersostanzializzazione: lo Stato etico trasformato in Stato totalitario. Per cui c’è stato un ritirarsi dell’etica, e le norme, le regole, l’imparzialità dei processi, sono diventate il luogo di libertà. Questo è stato la creazione degli Stati democratici in Europa. Evidentemente queste norme non sono però capaci di creare l’etica. C’è dunque una responsabilità nella teoria moderna della democrazia, in questo fissarsi esclusivamente sulle procedure, le norme e le regole, senza la dovuta e necessaria attenzione alla dimensione etica della democrazia, all’ethos della democrazia, appunto. Ha un ethos, la democrazia? Aron e Bobbio credevano che non ce l’avesse, perché la democrazia era appunto le regole del gioco, un sistema per risolvere i problemi in una dimensione di decisioni collettive: ci mettiamo insieme e per risolvere usiamo le regole democratiche, ovvero il voto, la maggioranza e minoranza, ecc. La democrazia non aveva valore sostanziale, se non per questo: rendeva possibile la pace (che è certo un valore di grande sostanza!). In fondo la battuta di Churchill - la democrazia è il migliore dei peggiori governi - è diventata il modo di dire di tutti, fino allo stesso Rawls.

Quindi c’è questo aspetto negativo incorporato nella democrazia: noi non possiamo farne a meno, però dobbiamo riconoscere che non è il migliore governo possibile, perché dovrebbe governare la competenza, non il numero. Questa è una lacuna profonda del pensiero democratico, che non ha saputo dare a se stesso qualcosa di più.

Habermas è forse il solo ad aver fatto un tentativo in questa direzione, peraltro in modo egregio, però affidandosi di fatto alla ragione razionalista: non solo la norma, ma il dialogo razionale. E’ la lingua ad unirci, a consentirci di dirimere le controversie. E’ questo elemento razionale che è dentro la lingua, il linguaggio, che ci consente di dialogare. Tuttavia questo funziona, se, come abbiamo detto prima, c’è un consenso sulla lingua e sull’uso della grammatica e delle parole, cioè se siamo nella stessa famiglia che parla; se, infine, non abbiamo ideologie forti che ci oscurano la capacità razionale e la possibilità di riconoscere che abbiamo sbagliato e di cambiare idea.

Secondo Habermas la parola, al di là dei diversi linguaggi, è la struttura normativa che unifica il mondo umano, tutti i parlanti, a prescindere dalla lingua che pratichiamo. Il linguaggio ci unisce anche quando abbiamo lingue diverse. Habermas ci credeva perché era un illuminista. Era molto diffidente sulla ricerca di una dimensione etica. Per esempio, non ha mai accettato il repubblicanesimo, perché lo ha identificato col civismo, col mito della virtù, e però... Però forse è necessaria un’addizionale. Probabilmente la democrazia va anche insegnata, non soltanto praticata. Ci sono dei valori che vanno insegnati. I valori dell’uguaglianza, per esempio, di cui oggi nessuno vuol più sentire parlare…

Forse, e tu lo dici da un po’, la democrazia rappresentativa non può fare a meno della vitalità associazionistica...

Certo, la società civile è importante perché come sappiamo l’associazionismo garantisce il pluralismo. Però, anche in questo caso, il quadro universalistico resta decisivo. Perché se queste realtà non sono interpretate all’interno di una dimensione generale, universale, si rischia una forma di neomedievalismo, un pluralismo normativo in relazione al quale l’uguaglianza perde di rilevanza, poiché ci sono associazioni che hanno più peso e altre che ne hanno meno, e poi all’interno di ciascuna ci sono associati che hanno più potere e altri meno, e poi c’è chi usa le associazioni per difendere ciò che ha. Senza una dimensione della legge generale o statale, l’associazionismo -e Tocqueville lo diceva molto bene- diventa il luogo per la libertà (solo) di alcuni.

Comunque è riduttivo dire che viviamo in un momento di reazione anti-moderna perché rischiamo di non vedere bene il pericolo. Un conto è la reazione contro l’universalismo quando l’universalismo non c’è ancora: dopo la Rivoluzione francese, la reazione, la restaurazione contro i lumi, è la restaurazione di pochi, di una minoranza. Dov’era l’universalismo in quel tempo? Non nelle leggi e nella società, ancora. Lo stesso liberalismo era essenzialmente quello dei proprietari.

Tutt’altra cosa è una reazione contro l’universalismo da parte di coloro che godono dell’universalismo dei diritti. In questo caso, è come un essere reazionari in un mondo di libertà, che ha la libertà. Nel 1815, la libertà dov’era? Quella che portava Napoleone, d’accordo, ma era pur sempre una libertà imposta e della quale godevano gruppi ristretti. Oggi invece c’è la libertà di milioni di persone, che hanno uguali diritti. E’ in questa situazione che noi abbiamo una reazione contro l’universalismo: ecco perché parlo di figure dispotiche in democrazia. Perché una massa di individui, che sono uguali per legge e sono uguali anche nelle opportunità di scambio, di acquisto, di possesso, pensano di costruire la “repubblica degli uguali” tra loro. Il loro universalismo si chiude a quello degli altri e diventa veramente la democrazia dispotica che decide sul proprio territorio. A rigore bisogna allora parlare di reazione contro i principi democratici all’interno di un mondo che è democratico.

Così la libertà, ma anche l’asilo nido, diventano privilegi...

Diventa tutto patrimonio degli uguali, di “noi”. E’ proprio la democrazia dispotica di cui parlava Tocqueville alla fine di Democrazia in America. Si mette un po’ di filo spinato intorno e si dice: noi siamo gli uguali e dobbiamo difendere questa nostra uguaglianza. E’ il modello spartano, il modello degli uguali, la democrazia dei molti ma non di tutti, la democrazia dispotica che decide sul proprio territorio, di cui Tocqueville aveva terrore. Quindi non è che noi non saremo più liberi, non è che noi perderemo la libertà, no, no, noi compreremo, venderemo, accenderemo il nostro computer, vivremo uniti, usciremo di sera senza incorrere in alcun coprifuoco. Ma sarà una libertà nostra, appunto, una libertà tra noi, chiusa agli altri. Quindi l’Europa, che è fatta di democrazie fondate sulla “nazione”, quindi già limitate nella loro espansione, si chiuderà ancora di più per conservare quella libertà formatasi nella cultura universalista, che ora viene rigettata.

Certo, quando tu separi la libertà dall’uguaglianza, la libertà diventa un privilegio. Ma quando i leghisti “conquistano” queste terre, mica si propongono di diminuire le libertà o di togliere dei benefici sociali. No, no, semmai li vogliono rafforzare, ma saranno le “loro” libertà, i “loro” benefici. E chi è fuori è fuori. Quando la libertà viene dissociata dall’uguaglianza, dall’universalismo, si crea una trasformazione del diritto in privilegio.

Tutto va in questa direzione ed è veramente una cultura egemonica di destra in tutti i sensi. La destra, in fondo, a partire dalla Rivoluzione francese, ha sempre osteggiato l’uguaglianza, come ha ben mostrato Bobbio. Il problema è questo: non è che ci tolgano la libertà, quello che ci tolgono è l’uguale libertà, per cui, ad esempio, i poveri tra un po’ verranno visti come tali. D’altra parte cos’è la carta sociale, la social card, istituita da questo governo? Io la chiamo “carta di povertà”, perché bisogna chiamare le cose col loro nome. A prescindere dal fatto provato che non ha funzionato anche per mancanza di finanziamenti, la carta di povertà è una certificazione di chi è povero; “fa vedere” il povero quando ne fa oggetto di carità pubblica. La verità è che quando si rompe il fronte dell’uguaglianza non si sa più dove si finisce. I bambini che vengono cacciati dalla mensa, perché poveri, sono una conseguenza molto eloquente di un rovesciamento della democrazia. L’universalità di cittadinanza serve appunto a eliminare lo stigma, a farci sentire uguali. Il sentimento dell’autostima, del sentirsi uguali, è potentissimo perché genera il senso della dignità. Ma quando tu umilii una persona davanti agli altri, quando trasformi la sua specificità o la sua difficoltà in un fatto discriminante, di ineguaglianza, allora l’altro si sente un inferiore, un poveraccio. Ma attenzione, perché se si interrompe l’uguaglianza una volta, la si interrompe sempre. Non è che si possa dire: ci fermiamo qui, perché quando la logica della esclusione e della discriminazione è entrata nella pratica pubblica, allora ci sarà sempre una ragione per applicarla.

Ecco perché le nostre società sono anche reazionarie oltre che conservatrici: perché partono con una limitazione dell’uguaglianza, ma poi continuano per arrivare al governo dei pochi lungo un percorso che pensa di limitare la libertà a “noi” soltanto.

Si dice spesso che questa è una ”democrazia autoritaria”. Ma non esiste una democrazia autoritaria. Gli autoritari se ne vogliono impossessare per poi trasformarla in qualcos’altro, che è il governo oligarchico.

Per questo l’uguaglianza è un principio fon-da-men-ta-le per la democrazia. Si dice: “No, lo è più la libertà”. Io non condivido questa priorità della libertà. Bobbio aveva perfettamente ragione: “Guai a pensare che una possa stare senza l’altra”. Si chiamano infatti uguali libertà: c’è un primato di entrambe oppure entrambe vengono a cadere. L’uguaglianza, diceva Condorcet, è un diritto fondamentale, è sbagliato considerarlo come uno strumento; è il diritto degli esseri umani, tutti, di appartenere allo stesso gruppo umano, di chiamarsi “esseri umani”, è la dichiarazione di unità degli esseri umani. Questa è l’uguaglianza: io ho il diritto di essere uguale a te.

Invece adesso c’è una reinterpretazione dell’uguaglianza, scritta all’interno, appunto, delle comunità specifiche. Questa traiettoria può portare alla distruzione della democrazia. Quindi il “dispotismo” dei molti è un passo in un movimento che va in direzione opposta: verso una società oligarchica, in cui i pochi, quelli che hanno più possesso, più uguaglianza tra loro, riusciranno ad avere il potere sugli altri.

In sostanza è davvero una fase di reazione contro la democrazia, se per democrazia si intende l’uguale libertà e l’universalismo che ci consente, con la cittadinanza, di trascendere la nostra vita specifica locale, quotidiana, economica, sociale, e di sentirci cittadini uguali. Perché anche il sentire è importante; se non ti senti inferiore a nessuno, e nessuno ti fa sentire inferiore, l’essere non ricco non ti fa sentire perdente; l’orgoglio della cittadinanza democratica è psicologicamente, oltre che eticamente, liberante. E’ un orgoglio buono.

Qui il sito Una Città, mensile di interviste

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