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Tommaso De Berlanga
Democrazia e mercati, si divorzia?
20 Agosto 2011
Articoli del 2011
Breve rassegna dell’attuale orientamento di vari commentatori che, sull’organo confindustriale, auspicano una politica non solo servile, ma anche efficiente. Il manifesto, 20 agosto 2011

A leggere i giornali più vicini a Confindustria e alle banche si nota una crescente insofferenza per «la politica». In quanto tale, senza personalizzazioni particolari. Da Obama in giù, passando per i Sarkozy e le Merkel, fino ai Bossi et similia.Una breve serie di citazioni può aiutare a cogliere il clima culturale che viene veicolato e a tematizzare il nocciolo duro – l'ideologia, diciamo pure – che supporta un ordine discorsivo influente, se non altro perché espressione diretta del «mondo dell'impresa».

Scrive Riccardo Sorrentino su Il Sole 24 Ore: «Non c'è nulla che possa spaventare di più gli investitori – e non solo... – che vedere le proprie sorti affidate a politici maldestri: quelli occidentali, ma anche quelli dei Paesi emergenti, ’responsabili’ dell'80% della crescita globale». Insomma, par di capire, a livello globale mancano del tutto i politici ben-destri, quelli capaci di realizzare la lunga liste di «riforme strutturali» che lo stesso Sorrentino riassume in «occorrerebbe intervenire sui mercati dei prodotti e dei servizi, sui brevetti (che creano monopoli prolungati e frenano l'innovazione), istituire politiche che favoriscano, e non solo permettano, la concorrenza». Per onestà, bisogna notare che dice anche «molta enfasi è data alla liberalizzazione del mercato del lavoro che, se lasciata sola, non è solo insufficiente ma – l'esperienza italiana è emblematica – può creare effetti negativi». Se il suo giornale non benedicesse da anni ogni pensata di Maurizio Sacconi forse (noi lavoratori italiani) ci saremmo evitati almeno una parte degli «effetti negativi» e dell'impoverimento. Ma a suo merito va aggiunto che per lui sarebbe necessario anche «ristrutturare davvero i sistemi finanziari», ammettendo che «ma questo gli investitori non lo chiedono», senza approfondire oltre.

E invece proprio qui si annida il dettaglio del diavolo: si chiede «alla politica» di rinunciare di fatto al «condizionamento dell'elettorato» (al principio fondante della democrazia, attenzione), ma si ritiene impossibile chiedere «agli investitori » (banche, fondi di ogni genere, assicurazioni, ecc) di accettare un'autentica «ristrutturazione » o regolamentazione del sistema finanziario. Gli interessi dei «banali elettori» e quelli dei «beati investitori» sarebbero dunque non solo in conflitto,ma anche di qualità diversa; in fondo i primi sono sacrificabili alla bisogna, i secondi no. Per Sorrentino, insomma, «dietro l'attuale incomunicabilità tra politica ed economia c'è anche un ormai antico scontro tra due culture diverse, che basterebbe a creare una crisi di fiducia e credibilità». E non c'è bisogno di chiedere quale delle due culture dovrebbe avere il predominio assoluto...

Il discorso è esplicito in Alessandro Plateroti – sempre sul Sole – «Ormai è chiaro a tutti che ci muoviamo in uno scenario in cui la globalizzazione impedisce misure unilaterali, ma interessi divergenti condannano alla paralisi». Servirebbe una utopica «unità politica» a livello mondiale, purtroppo impossibile perché condizionata da interessi nazionali divergenti e dalle preoccupazioni elettorali dei diversi leader. E infatti «Ciò che fa paura è la distanza che cresce tra ciò che chiedono i mercati e ciò che la politica è in grado di dargli. La 'pretesa' dei mercati, in ultima analisi, è che le vecchie e le nuove potenze industriali e finanziarie si assumano la responsabilità di definire una nuova leadership mondiale, ma in un mondo multipolare». Problemino non da poco, se si può dire. Specie se si ha memoria storica: ogni passaggio di leadership globale è avvenuto attraverso processi non proprio pacifici, anche prima del «terribile» Novecento.

Ma non è una sua personale convinzione. Anche per Carlo Bastasin – stesso giornale – dev'esserci una «linea», «l'incertezza delle leadership è infatti un fenomeno che condividono Usa ed Europa. Forse non è una pura coincidenza che sia Washington, sia Berlino, sia Parigi siano a un anno dalle prossime elezioni». Se non si votasse, certo, quante cose «impopolari ma utili» si potrebbero fare...

Riassumendo, la questione è: con quali meccanismi si può «decidere» la soluzione dei problemi posti dalla crisi se quelli della democrazia – confronto, costruzione di un interesse medio prevalente accettabile per la maggioranza, condivisione, ecc – non risultano più «efficaci» e, quindi, desiderabili?

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