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Marco Bascetta
Dall’orrore nazista dell’Isis alla barbarie «moderata»
6 Febbraio 2015
Articoli del 2015
«Le ragioni eco­no­mi­che e geo­stra­te­gi­che non abbi­so­gnano, si sa, di giu­sti­fi­ca­zioni morali. Ma il discorso pub­blico e anche la reto­rica demo­cra­tica non pos­sono farne a meno. E tacere sui sistemi di bru­tale oppres­sione eser­ci­tati dagli alleati dell’Occidente in casa propria».

Il manifesto, 5 febbraio 2015 (m.p.r.)

Occorre dav­vero far ricorso a tutte le risorse eti­che e razio­nali di cui dispo­niamo per non rele­gare un intero pezzo di mondo nelle tene­bre della bar­ba­rie più effe­rata e auspi­carne l’annientamento a qual­siasi costo, «danni col­la­te­rali» compresi. La ten­ta­zione è forte. All’orribile morte tra le fiamme di Moath al-Kasasbeh, decisa magari «dal basso» dagli umori infami del popolo jiha­di­sta con­sul­tato sulla rete, fa seguito la rea­zione squi­si­ta­mente kap­ple­riana della monar­chia di Amman, che fa imme­dia­ta­mente impic­care Sajida al-Rishawi, la ter­ro­ri­sta dete­nuta nelle car­ceri gior­dane dal 2005 e che la Gior­da­nia era dispo­sta fino a ieri a scam­biare con il suo pilota, e un altro dete­nuto qae­di­sta ira­cheno, Ziad al-Karbouli.

In realtà cir­co­lava voce che altri cin­que dete­nuti sareb­bero stati giu­sti­ziati, ma non è chiaro quale sia la pro­por­zione della rap­pre­sa­glia rite­nuta ade­guata dalla monar­chia hashe­mita. Ci augu­riamo infe­riore a quella delle Fosse Ardea­tine. Intanto da quel san­tua­rio di sag­gezza isla­mica «mode­rata» che è l’università cora­nica di Al Azhar si leva l’invito a «ucci­dere, cro­ci­fig­gere e muti­lare» i ter­ro­ri­sti. Que­sto Islam potrebbe pia­cere per­fino, per l’occasione, alla destra islamofoba.

Lasciando per un momento da parte ogni con­si­de­ra­zione geo­po­li­tica, ci tro­viamo di fronte tutti gli ele­menti di una «guerra inter­fa­sci­sta» (per usare l’espressione sug­ge­sti­va­mente appli­cata da Franco Berardi Bifo alla guerra in Ucraina). L’orrore abita diversi luo­ghi nel mondo, in pro­por­zioni nume­ri­che più o meno spa­ven­tose dal Paki­stan alla Nige­ria, per­vade legi­sla­zioni, forme poli­ti­che e sociali di molti regimi fidati alleati dell’Occidente.

In un luogo spe­ci­fico, però, quello mili­tar­mente occu­pato dall’Isis, l’orrore si è «fatto stato» senza diplo­ma­tici velami. Uno stato che eser­cita il suo potere in forme tanto feroci da far impal­li­dire l’Afghanistan cru­del­mente tri­bale e «tra­di­zio­na­li­sta» del Mul­lah Omar. Vi si bru­ciano libri ed esseri umani in stile più nazi­sta che «medioevale». Que­sto stato deve essere can­cel­lato dalla carta geo­gra­fica, pre­stando però molta atten­zione a che non se ne disper­dano le spore. Ma è que­sta una ragione per tol­le­rare la bar­ba­rie «mode­rata» che fre­quenta la city nel timore che possa diven­tare «estrema», pro­ba­bil­mente senza smet­tere di frequentarla?

Le ragioni eco­no­mi­che e geo­stra­te­gi­che non abbi­so­gnano, si sa, di giu­sti­fi­ca­zioni morali. Ma il discorso pub­blico e anche la reto­rica demo­cra­tica non pos­sono farne a meno. E tacere sui sistemi di bru­tale oppres­sione eser­ci­tati dagli alleati dell’Occidente in casa propria. E’ di ieri la con­danna all’ergastolo di cen­ti­naia di mili­tanti del movi­mento che spo­de­stò Muba­rak in Egitto.

Non si vedono in giro per il mondo car­telli e magliette con la scritta «Je suis Moath». Certo un pilota che bom­barda, tutt’altro che chi­rur­gi­ca­mente, i ter­ri­tori domi­nati dall’orrore è ben diverso da vignet­ti­sti assas­si­nati per le loro opi­nioni ed eletti a sim­bolo della libertà di espres­sione, seb­bene tutti vit­time della mede­sima bar­ba­rie. Le bombe, que­sto è certo, non sono parole. Eppure dovreb­bero esserci, nono­stante tutto, que­ste magliette e que­sti car­telli, per­ché la Con­ven­zione di Gine­vra, per non par­lare dei più ele­men­tari prin­cipi di uma­nità, con­tiene diritti non meno impor­tanti da difen­dere. E anche chi par­te­cipa a una guerra, una volta pri­gio­niero non può subire la sorte ter­ri­fi­cante toc­cata al pilota giordano.

C’è un pro­blema però. Anche le vit­time della rap­pre­sa­glia gior­dana, e cioè di una logica fasci­sta, meri­te­reb­bero la stessa atten­zione. Capi­sco quanto sarebbe imba­raz­zante indos­sare una maglietta con la scritta «Je suis Sajida», una fana­tica ter­ro­ri­sta che ha par­te­ci­pato a un atten­tato che ha pro­vo­cato 60 morti, ma nel momento in cui non è più in grado di nuo­cere e diventa la pedina inerme e tor­tu­rata di un mostruoso gioco di imma­gini, l’oggetto di una ven­detta al ser­vi­zio della pro­pa­ganda hashe­mita, forse biso­gne­rebbe avere il corag­gio e lo sto­maco di farlo.

Ma solo da quel momento in poi. Prima gli uomini dell’Isis, come già gli eser­citi nazio­nal­so­cia­li­sti, non pos­sono che essere com­bat­tuti con le armi e i loro com­plici «mode­rati» e silen­ziosi costretti a get­tare la maschera e a ren­dere conto delle pro­prie azioni.

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